2 CORINTI
Approfondimenti al capitolo 2
rimprovero O “punizione”. Nella prima lettera ispirata che scrisse ai corinti, Paolo aveva detto loro di allontanare dalla congregazione un uomo che aveva praticato immoralità sessuale in maniera impenitente (1Co 5:1, 7, 11-13). La disciplina impartita aveva prodotto buoni risultati: la congregazione era stata protetta dall’influenza negativa di quel peccatore, e lui si era pentito sinceramente. L’uomo aveva compiuto opere che dimostravano pentimento, perciò qui Paolo dice che il rimprovero che la maggioranza gli aveva fatto era stato “sufficiente” e che la congregazione doveva riaccoglierlo. Farlo sarebbe stato conforme al modo di agire di Geova, che disciplina i suoi servitori “nella giusta misura” (Ger 30:11).
sia sopraffatto Lett. “sia inghiottito”. Il verbo greco qui usato può avere alla lettera il senso di inghiottire o divorare qualcosa (Eb 11:29; 1Pt 5:8). Secondo un lessico, l’espressione “sia sopraffatto da una tristezza troppo grande” descrive una persona “talmente schiacciata dal dolore da essere disperata”, “così afflitta da volersi arrendere”.
riconfermargli il vostro amore Il verbo greco tradotto “riconfermare” è un termine legale che significa “convalidare”, come è reso ad esempio in Gal 3:15. I cristiani di Corinto dovevano dar prova della genuinità del loro amore: con l’atteggiamento e le azioni dovevano dimostrare chiaramente all’uomo pentito che lo riaccoglievano con tutto il cuore. Riallacciando dei buoni rapporti con lui, gli avrebbero “riconfermato”, o “convalidato”, il loro amore. Glielo dovevano dimostrare, senza partire dal presupposto che lui lo avrebbe percepito automaticamente.
Satana non prevalga su di noi O “Satana non ci inganni”, “Satana non si approfitti di noi”. Al tempo in cui Paolo scrisse 1 Corinti, Satana aveva corrotto la congregazione di Corinto. I suoi componenti erano stati troppo indulgenti: avevano permesso a un uomo malvagio di continuare a praticare immoralità sessuale senza tener conto del disonore arrecato al nome di Dio. Per questo motivo Paolo li aveva ripresi (1Co 5:1-5). In seguito, però, l’uomo si era sinceramente pentito. Se i fratelli fossero andati all’estremo opposto rifiutandosi di perdonarlo, Satana avrebbe prevalso su di loro in un altro modo: sarebbero stati duri e spietati proprio come lo è lui, e quell’uomo, anche se pentito, si sarebbe sentito davvero scoraggiato.
non ignoriamo i suoi stratagemmi Paolo non sta semplicemente dicendo che “conosciamo i suoi stratagemmi”. Qui usa una litote, cioè una figura retorica che consiste nell’attenuare un’espressione negando il suo contrario, con l’effetto di enfatizzarla. (Un esempio di litote si trova in At 21:39, dove Tarso viene definita “una città non certo sconosciuta”, a indicare che era importante.) Per questo motivo alcune traduzioni enfatizzano il concetto espresso da Paolo con rese come “conosciamo bene i suoi disegni” o “conosciamo fin troppo bene le sue macchinazioni”.
stratagemmi O “intenzioni”, “disegni”, “macchinazioni”. Il termine greco qui usato è nòema e deriva da noùs, che significa “mente”. Qui comunque si riferisce ai disegni malvagi di Satana, alle sue intenzioni. Usando tutta la sua astuzia, Satana escogita modi per indurre i cristiani a smettere di servire Dio. I Vangeli, come pure altri libri scritti in precedenza, ad esempio quello di Giobbe, smascherano le strategie di Satana (Gb 1:7-12; Mt 4:3-10; Lu 22:31; Gv 8:44). Più avanti, in questa stessa lettera, Paolo scrive che “il serpente con la sua astuzia sedusse Eva” e che “Satana stesso finge di essere un angelo di luce” (2Co 11:3, 14). Ecco perché in questo versetto dice che non ignoriamo i suoi stratagemmi. Secondo alcuni qui Paolo fa un sottile gioco di parole, che potrebbe essere reso “alla nostra mente non sfugge la sua mente”, cioè il suo modo di pensare malvagio.
non mi davo pace per non avervi trovato mio fratello Tito Paolo aveva scritto 1 Corinti mentre si trovava a Efeso. Quella lettera conteneva consigli energici. In seguito Paolo aveva inviato Tito a Corinto perché desse una mano in relazione alla colletta per i cristiani bisognosi della Giudea (2Co 8:1-6). Paolo aveva poi sperato di incontrare Tito a Troas, ma la cosa non si era concretizzata. Ecco perché in questo versetto scrive: “Non mi davo pace”. Forse era dispiaciuto perché non era riuscito ad avere da Tito notizie sulla reazione dei corinti alla sua energica lettera. Paolo volle dire apertamente ai cristiani di Corinto come si sentiva, dimostrando che si interessava profondamente di loro. In seguito partì per la Macedonia, dove finalmente incontrò Tito, che gli diede buone notizie. Con grande sollievo e gioia di Paolo, la congregazione aveva reagito in modo positivo ai suoi consigli (2Co 7:5-7; vedi approfondimento a 2Co 7:5).
ci conduce in un corteo trionfale Il verbo greco per “condurre in un corteo trionfale” (thriambèuo) compare solo due volte nelle Scritture, con due significati metaforici e in due contesti alquanto diversi tra loro (2Co 2:14; Col 2:15). In epoca romana un corteo trionfale, o trionfo, era una processione ufficiale tenuta per ringraziare le divinità e onorare i generali che avevano riportato una vittoria. Sculture, dipinti e monete ritraevano spesso cortei trionfali, descritti anche in opere letterarie e rappresentati in opere teatrali. Nei grandi pannelli a rilievo dell’Arco di Tito a Roma si può vedere una rappresentazione del corteo trionfale che si tenne nel giugno del 71. In questi pannelli vengono rappresentati dei soldati romani che portano gli utensili e gli arredi sacri presi dal tempio di Gerusalemme che era stato devastato.
diffonde [...] il profumo O “rende percettibile [...] il profumo”. Questa parte della metafora deriva probabilmente dall’usanza di bruciare incenso lungo il percorso di un corteo trionfale. Paolo paragona la diffusione della conoscenza di Dio alla diffusione di un profumo.
profumo soave di Cristo Il termine greco qui reso “profumo soave” è euodìa. In Ef 5:2 e Flp 4:18 euodìa compare in combinazione con osmè (che significa “odore”, “profumo”); queste due parole insieme sono comunque rese “profumo soave”. Nella Settanta i due termini compaiono spesso come traduzione dell’espressione ebraica per “odore gradevole” o “odore gradito” usata in riferimento ai sacrifici fatti a Dio (Gen 8:21; Eso 29:18). In questo versetto e nel precedente Paolo si rifà ai cortei trionfali, paragonando l’incenso bruciato durante la processione al “profumo soave di Cristo”. Questo “profumo” suscita reazioni diverse, a seconda che la persona accetti il messaggio cristiano o no.
odore O “profumo”. In questo versetto compare due volte il termine greco osmè, una volta nell’espressione “odore di morte” e una volta nell’espressione “profumo di vita”. Questo termine può riferirsi sia a un odore piacevole (Gv 12:3; 2Co 2:14, 16; Ef 5:2; Flp 4:18) sia a un odore sgradevole. Nella Settanta compare in Isa 34:3, dove si riferisce al “fetore dei [...] cadaveri”. Qui in 2Co 2:16 questo odore simbolico rappresenta in entrambe le occorrenze la stessa cosa: il messaggio proclamato dai discepoli di Gesù. In un corteo trionfale i prigionieri sfilavano davanti alle folle e alla fine della processione venivano giustiziati; per loro quel profumo era un “odore di morte”. Nel paragone che fa Paolo, a rendere piacevole oppure sgradevole questo odore è la reazione delle persone al messaggio. Il messaggio è “profumo di vita” per chi lo accetta, ma “odore di morte” per chi lo respinge.
per questo compito Cioè per il tipo di ministero che Paolo ha descritto nei versetti precedenti. In altre parole Paolo sta chiedendo: “Chi è qualificato per essere un vero ministro di Dio e diffondere ovunque il profumo della Sua conoscenza?”
Noi Questa è la risposta alla domanda che si trova alla fine del v. 16. Paolo non sta peccando di presunzione quando afferma che lui e i suoi compagni d’opera sono qualificati per questo ministero. Infatti spiega chiaramente che parlano come mandati da Dio, nel senso che riconoscono che se sono qualificati è esclusivamente merito di Dio; parlano inoltre in tutta sincerità, nel senso che sono mossi da motivi puri (2Co 3:4-6).
non siamo venditori della parola di Dio O “non facciamo commercio del messaggio di Dio”, “non traiamo guadagno dal messaggio di Dio”. A differenza dei falsi insegnanti, Paolo, gli apostoli e i loro collaboratori predicavano il messaggio di Dio senza alterarlo, e non erano mossi da cattivi motivi. Il verbo greco qui reso “siamo venditori” (kapelèuo) in origine si riferiva all’attività di un commerciante al dettaglio o di un oste, un taverniere, ma con il tempo finì per includere l’idea di essere fraudolenti e avidi. Nella Settanta un sostantivo greco affine a questo verbo compare in Isa 1:22, nella frase “i tuoi mercanti di vino [o “tavernieri”] mescolano il vino con acqua”. In epoca classica era consuetudine diluire il vino con acqua. Per guadagnare di più, alcuni aumentavano la percentuale di acqua usata. È stato quindi ipotizzato che Paolo stesse alludendo a questi venditori di vino disonesti. La stessa metafora è usata nella letteratura greca per descrivere l’attività di filosofi itineranti che trasmettevano i loro insegnamenti in cambio di denaro. Quando Paolo dice che molti altri erano “venditori” della parola di Dio, a quanto pare aveva in mente i falsi ministri che aggiungevano alla Parola di Geova filosofie umane, tradizioni e falsi insegnamenti religiosi. Simbolicamente la annacquavano, e così ne alteravano profumo e gusto e ne indebolivano la capacità di rallegrare (Sl 104:15; vedi approfondimento a 2Co 4:2).