Sopravvissuti alla strage di Kolwezi
Due missionari dei testimoni di Geova sopravvivono alla strage, ma subiscono una tragica perdita
TUTTO sembrava normale quando quel venerdì sera, 12 maggio 1978, ci ritirammo nella camera da letto della nostra casa missionaria. Stavamo a Kolwezi, cittadina mineraria della provincia meridionale di Shaba, nello Zaire. Era una bella cittadina con circa 120.000 abitanti, fra cui 4.000 stranieri impiegati principalmente nelle immense miniere di rame della zona. Il rame costituisce la principale risorsa dello Zaire. Non sapevamo che gli avvenimenti delle ore e dei giorni successivi sarebbero stati sulla prima pagina dei giornali di tutto il mondo. Un avvenimento in particolare ci avrebbe colpiti per il resto della nostra vita.
All’alba dell’indomani, sabato 13 maggio, fummo svegliati da un secco “rat-tat-tat” che scosse la quiete mattutina. Dapprima ci chiedemmo cosa fosse. Poi con un tuffo al cuore ci rendemmo conto che erano colpi di fucile e mitra. Che succedeva? Un ammutinamento dell’esercito? Un attacco di ribelli? Presto il fragore del combattimento ci raggiunse e le pallottole fischiavano sopra la nostra casa. Alcune si conficcarono negli alti alberi del giardino.
Ci affrettammo a riempire d’acqua la vasca da bagno e a cuocere del pane nel caso che mancassero acqua ed elettricità. Sentivamo forti voci per la strada e sbirciammo da una fessura della porta del garage verso il cancello. Stava passando un drappello di soldati con pesanti zaini. Parlavano swahili. Erano ribelli del Katanga, gli stessi che avevano attaccato la provincia di Shaba (ex Katanga) l’anno prima? Di solito parlano swahili, mentre le truppe governative parlano lingala. I katanghesi cercano di riprendere quella che considerano la loro provincia. O, se non ci riescono, almeno vogliono provocare un cambiamento nel governo centrale.
Per tutta la giornata di sabato e domenica il rumore dei combattimenti continuò, a volte lontano, a volte nelle case vicine, dove ogni tanto si sentivano forti colpi di mitra e fucile. Come avevamo temuto, mancò l’acqua, ma continuò a esserci a intermittenza l’elettricità. Stavamo vicini alla radio per cercare di capire cosa accadeva. Per precauzione contro le pallottole vaganti, mettemmo un materasso e dei cuscini contro la grande finestra della camera da letto.
Distrutta la camera da letto
Nel primo pomeriggio di lunedì le due parti ricominciarono a scambiarsi colpi d’arma da fuoco. Ci barricammo nella camera da letto. Verso le quattordici una fragorosa esplosione fece tremare la casa. Poi una seconda esplosione assordante scosse la camera da letto, seguita dal fragore di un terzo scoppio. Per parecchi secondi rimanemmo immobili, storditi, troppo scossi per renderci conto di cosa stava accadendo. Gridai a mia moglie di rifugiarsi nel corridoio centrale. Polvere e fumo nascondevano la devastazione della camera da letto. Perdevamo sangue, e ci dirigemmo verso il bagno per esaminare le nostre ferite. Mia moglie era ferita alla spalla, io a un braccio, ed entrambi avevamo altri taglietti qua e là.
Bombe di mortaio o razzi erano penetrati attraverso il tetto, proprio sopra lo scrittoio al quale ero stato seduto a lavorare. Schegge di granata erano sparse per la stanza. Alcuni frammenti ci avevano colpiti entrambi. Disinfettammo le ferite con alcool e cercammo di estrarre il piombo con un rasoio e un ago pulito. Quindi fasciammo le ferite.
Tornati nella camera da letto, la trovammo quasi completamente distrutta. C’era uno squarcio nel soffitto e nel tetto sopra il mio scrittoio. La stanza era piena di detriti e frammenti metallici della bomba di mortaio e del tetto di lamiera. Le pareti erano sforacchiate, e così il tappeto ai nostri piedi, le coperte e gli effetti personali sul letto, i mobili e anche le nostre borse di cuoio. Ma stranamente ciascuno di noi aveva solo tre ferite superficiali prodotte dalle schegge.
Per fortuna, il bombardamento cessò poco dopo e ci accingemmo a costruirci un riparo nella terza camera da letto che conteneva scatole di letteratura. Ammonticchiammo le scatole per riparare parte delle finestre coprendo il resto con un altro materasso. Dalla camera demolita trascinammo il letto fino all’angolo più riparato e vi facemmo una copertura con fogli di legno compensato sostenuti agli angoli dalle scatole.
Le esplosioni si susseguono
Nei due giorni successivi trascorremmo il pomeriggio accucciati sotto il nostro rifugio di fortuna mentre bombe di mortaio e razzi continuavano a cadere con esplosioni assordanti nel giardino e nelle vicinanze. Non c’era mai un preavviso: solo lo scoppio improvviso e il rumore delle macerie che cadevano. Nel frattempo continuava il fuoco delle mitragliatrici e delle armi leggere. Sentimmo la finestra infrangersi dietro la barricata di scatole e materasso mentre una bomba di mortaio esplodeva proprio fuori della stanza. Fortunatamente le pareti della casa erano costruite di solidi mattoni.
Un’altra bomba esplose fuori della cucina, rompendo le finestre. Altre due esplosero nel cortile, mandando in pezzi le finestre del deposito della letteratura e sforacchiando la parete di cemento di un piccolo edificio sul retro. Nel bagno la nostra riserva d’acqua era piena di frammenti di vetri infranti e intonaco. Un altro razzo esplose davanti a casa, sforacchiando la parete esterna e facendo ricadere all’interno i frammenti dei vetri rimasti alle finestre dell’intera facciata. Nel giardino, di quando in quando, cadevano ramoscelli recisi da pallottole vaganti.
Durante una tregua dei combattimenti, un vicino attraversò la strada per chiederci se ce ne intendevamo di medicina. Una bomba o un razzo era esploso presso la finestra della cucina e sua moglie era ferita gravemente alla nuca. Essa era ovviamente in stato di shock, ma non fu possibile trasportarla all’ospedale perché in quella direzione continuava la sparatoria. Non potemmo far altro che darle della penicillina per prevenire l’infezione della ferita.
Nel pomeriggio di mercoledì non sentimmo più rispondere al fuoco dalle posizioni dell’esercito regolare vicine a casa nostra, benché continuassero a esplodere nel vicinato bombe di mortaio o razzi.
Giovedì era molto più calmo vicino a casa nostra, a parte qualche occasionale raffica di mitra, qualche fucilata isolata e qualche colpo di mortaio in lontananza. Sentii il rumore di un veicolo nella strada e feci capolino dietro l’angolo nella speranza che passasse un amico. Con mio sgomento, quattro soldati katanghesi erano al cancello. Mi ordinarono di avvicinarmi, puntandomi la pistola alla testa, e mi dissero di aprire il cancello.
Non sapevo se volevano installare una posizione dietro l’alto muro di mattoni o se avevano l’intenzione di rubare e molestarci. Per aver tempo di pensare, indicai le due catene col lucchetto al cancello e dissi loro che dovevo andare a prendere le chiavi per poter aprire il cancello. Entrai in casa, e prontamente barricammo le porte. Avrebbero cercato di forzare il cancello o di arrampicarsi sul muro di cinta? Come pregammo Geova in quei minuti! Spararono in aria e dopo qualche tempo proseguirono giù per la strada.
Rimanemmo barricati in casa per paura di singoli soldati indisciplinati. Avevamo già sentito alla radio dell’assassinio di diversi bianchi. A volte i ribelli penetravano nelle case per uccidere; ma altre volte solo per rubare senza fare del male a nessuno. L’importante era non opporsi apertamente.
Venerdì, volevo vedere come stava la donna ferita nella casa di fronte. Ero appena uscito che la testa mi fu sfiorata dalla pallottola di un franco tiratore. Rimanemmo in casa pregando e leggendo la Bibbia.
Sabato giunse inaspettato l’aiuto delle truppe belghe e francesi penetrate nella cittadina per evacuare tutti gli stranieri. In precedenza, paracadutisti zairesi avevano riconquistato l’aeroporto. Avevamo qualche minuto per racimolare poche cose — solo quello che potevamo portare — e affrettarci all’aeroporto. Si doveva abbandonare tutto. Andandocene, ci informammo brevemente circa alcuni fratelli cristiani. Erano salvi, ma scarseggiavano i viveri.
Per strada l’atmosfera era tesa, perché le forze ribelli non si erano ritirate molto lontano. Ovunque erano evidenti i segni della guerra: corpi di soldati uccisi, veicoli danneggiati, bossoli di mitra, edifici bombardati. All’aeroporto si vedevano elicotteri e aerei incendiati; bombe di mortaio esplose e inesplose giacevano sul terreno, e le forze di evacuazione circondavano la strada e l’aeroporto.
Centinaia di europei affluivano all’aeroporto, abbandonando le loro auto. Dopo l’attesa sulla pista, raggiungemmo la base di Kamina a bordo di aerei da trasporto dell’esercito belga. Di lì la Sabena, compagnia di bandiera belga, trasportò i profughi nella capitale perché prendessero l’aereo diretti nelle rispettive nazioni.
Lungo il viaggio sentimmo molte notizie di civili assassinati, sia europei che zairesi. Ci furono mostrate fotografie di una casa piena di uomini, donne e bambini che erano stati massacrati. Secondo i calcoli ufficiali oltre 200 europei erano stati uccisi, e alcuni erano stati presi come ostaggi dall’esercito invasore in ritirata. Sembrava che gli invasori avessero deciso di tornare al loro rifugio oltre confine per preparare un altro attacco in seguito.
Perdiamo nostro figlio
Arrivammo a Kinshasa, ma le nostre prove non erano finite. Martedì mia moglie, quasi al sesto mese di gravidanza, dopo aver resistito al terrore, ai pericoli e ai disagi della guerra, cominciò ad avere le doglie. Fu portata all’ospedale. Giovedì diede prematuramente alla luce il nostro minuscolo figlioletto che pesava solo 750 grammi. Sopravvisse solo per quattro giorni pieni d’ansia, essendo troppo piccolo per respirare o digerire cibo nel suo minuscolo stomaco.
Come sarà meraviglioso quando Geova farà cessare le guerre fino alle estremità della terra! (Sal. 46:9) Diverse volte noi e altri cristiani abbiamo rischiato la vita. Solo l’aiuto e la guida di Geova hanno potuto aiutarci. Tali esperienze rafforzano la nostra fede in lui e nell’efficacia delle preghiere. — Da un collaboratore.