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  • Pachamanka, antica pentola a pressione delle Ande
    Svegliatevi! 1970 | 8 aprile
    • Pachamanka, antica pentola a pressione delle Ande

      Dal corrispondente di “Svegliatevi!” nel Perù

      VIVENDO a un’altezza di 3.252 metri, sulle Ande peruviane, la cuoca riscontra che una delle sue migliori amiche è la pentola a pressione. Realmente, in quest’atmosfera rarefatta, come si potrebbe diversamente gustare la zampa di un superattivo animale da cortile o un pezzo di carne di mucca che ovviamente è diventata troppo vecchia? Quassù il mezzo comune per rendere tenera la carne richiederebbe più tempo di quanto l’affamato cittadino sarebbe disposto ad aspettare. La soluzione sta dunque nella pentola a pressione.

      Ma le pentole a pressione sono un’innovazione molto recente, potete pensare. Come facevano gli Indiani delle alte Ande nei secoli passati? Senza l’uso di utensili metallici, inventarono il loro proprio speciale sistema per cucinare. Esso, ricordato e perpetuato nei secoli, si chiama “pachamanka”.

      Pachamanka è la combinazione di due parole della lingua quechua degli Inca: pacha, che significa “terra”, e manka, che significa “bollitore”. Del tutto a proposito anche, poiché l’intero pasto è cucinato in una buca nella terra. Si usano pietre rotonde e levigate di granito per rivestire una buca di quarantacinque centimetri, la cui parte superiore viene chiusa, e il tutto somiglia moltissimo a un alveare di pietra. Da una parte si lascia un’apertura come bocca del forno. Attraverso di essa viene messo il combustibile e il fuoco brucia per tre o quattro ore finché il rivestimento di pietra raggiunge un’alta temperatura.

      La stagione per il pachamanka è quella delle piogge, la stagione della mietitura, che va da febbraio a maggio, quando il granturco è maturo e lo stelo è lattiginoso, e ci sono tutte le patate e i legumi necessari per questo gustoso pasto. Sì, avevamo sentito parlare della popolarità del pachamanka, ma eravamo del parere che per credere bisogna vedere e mangiare. Ebbene, poco dopo il nostro arrivo a Huancayo, luogo tradizionale di questa specialità culinaria, fummo invitati al pachamanka!

      Paese del pachamanka

      La Valle di Mantaro in cui è situata Huancayo è bella e storica. Quattrocentocinquant’anni fa i governanti degli Inca mandavano corrieri, detti Chasquis, in questa stessa valle, per portare messaggi e forse oggetti preziosi su e giù per le distese più settentrionali del loro impero a Quito, nell’Ecuador. Fortunatamente, non dobbiamo fare di corsa i trenta chilometri che ci separano dalla nostra destinazione. Il nostro ospite ci ha gentilmente provveduto un furgoncino e l’autista per condurci all’interno del paese.

      Con le mani sudate strette l’una all’altra, ci prepariamo a questa corsa fino alla sua desiderata conclusione. Con un improvviso sobbalzo, sollevando sassi e polvere come un toro locale, ci mettiamo frettolosamente in viaggio. Il piacevole paesaggio di questa valle, verde e rugiadosa per le piogge tropicali, attira l’occhio per la sua varietà e accende l’immaginazione. In ogni campo notiamo tende indiane ricoperte di paglia e sui trampoli. Queste, si è detto, sono gli alloggi dei guardiani notturni che devono passare nel campo la stagione della mietitura per proteggere le messi dalle depredazioni dei ladri.

      I recinti di mattoni cotti al sole sono stati decorati con vari slogan politici. Lungo il bordo della strada trotterellano gli asini, con gli uomini seduti in groppa ad essi, mentre le mogli degli uomini vi camminano dietro. Queste donne laboriose trasportano spesso sulla schiena pecore, maiali, anitre, galline, cani, oltre a bambini, ma oggi sono cariche di generi alimentari e corteccia e rami d’eucalipto. Gli alberi diritti, piantati in file, ci fanno ombra mentre velocemente passiamo accanto ad essi. E da entrambi i lati, levandosi bruscamente fino all’altezza di 450 metri, con nubi di pioggia che indugiano sulle pendici, ci sono le protuberanti diramazioni della Cordigliera.

      Mentre stiamo per giungere alla fine del viaggio, abbandoniamo la strada asfaltata e seguiamo una strada nei campi. Sobbalzando a intervalli regolari sui sedili, procediamo lungo questo sentiero pieno di buche finché siamo costretti a fermarci ai margini di un corso d’acqua. Dopo aver attraversato a piedi parecchi ettari coltivati a patate dai fiori purpurei, giungiamo alla chacra o fattoria del nostro ospite.

      Preliminari

      Prima d’entrare nell’aia, siamo passati davanti alle pietre a forma d’alveare, in procinto d’essere riscaldate per il pasto. Avevamo sentito dire che a volte si usa sterco d’animale come combustibile, per cui siamo contenti di vedere che vengono usati ramoscelli e rami d’eucalipto per alimentare il fuoco. Dopo l’iniziale benvenuto, e giacché passeranno un paio d’ore prima dell’ora del pasto, siamo invitati a gustare un po’ di brodo d’anatra e gelatina di frutta.

      Accanto al tavolo, sul davanzale della finestra, notiamo un vaso di vetro da un litro. È pieno per tre quarti di alcool, e attorcigliato sul fondo c’è un serpente in salamoia. Abbiamo già visto questo stesso intruglio, e quindi ci chiediamo se questa “acqua infuocata” sarà presto nuovamente usata per massaggiare qualcuno che soffre di artrite, nevrite, lombaggine o reumatismi, o forse inghiottita come rimedio contro l’influenza.

      Quando riusciamo a staccare gli occhi da questa affascinante vista ci rendiamo conto di quale luogo d’intensa attività abbiamo visitato. Le donne indiane frantumano il granturco maturo, riempiendo infine sino alla cima una scodella contenente latte. Vi si aggiungono lardo, uva passa, cinnamomo, noccioline e zucchero. Questo miscuglio viene messo in una foglia di granturco e attentamente arrotolato. I nostri amici peruviani lo chiamano “humita”; noi lo potremmo chiamare focaccia dolce di granturco. Se ne preparano a decine per il pachamanka.

      Saziata per il momento la nostra fame, gli ospiti ci conducono fuori accanto al fuoco e ci sediamo su sedie di vimini. Vincendo la loro timidezza, alcuni cominciano a farci domande su molte cose: la nostra precedente casa; il menù nel Nordamerica, ecc. “È mai stato su un aereo? Aveva paura? Come sono i pellirosse?” Queste sono soltanto alcune domande tipiche.

      Intanto, i preparativi proseguono velocemente. Parecchi uomini, servendosi di una grande asse, spostano con cautela da un lato della buca la maggior parte delle pietre. Quelle che restano sul fondo son ripulite delle ceneri e poi le donne portano i vari ingredienti del pachamanka. Sulle pietre sono messe delle patate con la buccia. Poi arriva una pentola di terracotta contenente porcellino d’India condito con lardo, aglio, peperoni rossi in polvere e contorno di patate intere sbucciate. Segue poi uno strato di pietre infuocate, e in cima ad esse montone, maiale e coniglio. Altre pietre calde e quindi le humita o focacce di granturco. Infine, in cima si mettono erba medica, fagioli lima, e un’erba selvatica detta “mama-killa” (parola quechua per “madre luna)”.

      Il mucchio di cibo è ora quasi completo, essendo la mama-killa l’unico condimento di questo pasto speciale. Viene stesa in cima della tela di sacco per riparare il cibo dalla terra che viene quindi gettata sopra per sigillare questa sorprendente pentola a pressione. Non si lascia sfuggire una sola goccia di umidità. E mentre le pietre scaldate fanno il loro lavoro noi ci rimettiamo a sedere per chiacchierare piacevolmente.

      Il pranzo e dopo

      Come facciamo a sapere quando il pachamanka è pronto da mangiare? Be’, nemmeno i reali Inca avevano orologi da polso con cui calcolare il tempo di cottura, per cui la cuoca deve semplicemente indovinare in base all’esperienza o fare un buco nel mucchio per stabilire dall’odore se il cibo è pronto. Quarantacinque minuti dopo aver sigillato il “bollitore terrestre” la terra è attentamente raccolta con la pala, la tela di sacco è tolta, e, oh, che delizioso aroma!

      È ora di mangiare. La prima portata (i primi saranno gli ultimi, sapete) è costituita di fagioli. Mentre li mangiucchiamo i nostri piatti vengono riempiti di montone, coniglio, patate e focacce dolci di granturco. Non ci sono coltelli né forchette. Da questo pasto non potremo andar via senza aver le dita unte. Mentre mangiamo allegramente, non possiamo fare a meno di notare le ciglia corrugate e i cauti movimenti di coloro che tirano fuori il cibo dall’intenso calore della stufa di pietra.

      Infine, con delizia di questa gente semplice della sierra centrale, fa la sua comparsa il cuy o porcellino d’India. Non c’è dubbio su di esso, poiché sul piatto vedete quella che sembra una coscia di pollo, ma da essa sporge un piccolo, sottile arto, con cinque dita arricciate all’estremità. Prendiamo su la nostra parte e diamo un morso. Affondiamo i denti nella più tenera delle carni dal sapore di pollo. Che delizioso bocconcino con cui concludere questo incomparabile pasto! Ed è una piacevole sensazione che gustiamo fino in fondo.

      Il sole, spuntando fra le nubi cariche di pioggia, corre verso il suo prossimo appuntamento sui colli occidentali. Presto sarà buio e dobbiamo tornare a casa. Esprimiamo ai nostri gentili ospiti la nostra soddisfazione, e quindi ritorniamo sui nostri passi fino al furgoncino, riflettendo sull’ospitalità di questi semplici Indiani. Come sono stati amichevoli e cordiali con noi Americanos del Nord!

      I governanti Inca che si crede rendessero popolare, se non originassero, questo tradizionale pasto cotto nella pentola a pressione, sono da lungo tempo svaniti nella storia. Ma come siamo lieti che i loro discendenti abbiano tramandato di generazione in generazione l’arte del pachamanka! Avendo partecipato a un così delizioso pasto, siamo ansiosi di tornarci. È qualche cosa che vale ben la pena di ripetere. Dopo tutto, nel campo della buona cucina, che cosa c’è di più semplice?

  • Africa del Sud-Ovest o Namibia: Paese di piacevole varietà
    Svegliatevi! 1970 | 8 aprile
    • Africa del Sud-Ovest o Namibia: Paese di piacevole varietà

      Dal corrispondente di “Svegliatevi!” nella Repubblica Sudafricana

      È MOLTO facile trovare l’Africa del Sud-Ovest sulla carta geografica del mondo. S’affaccia sulla costa occidentale dell’Africa proprio a nord del fiume Orange. Alcune enciclopedie non hanno nessuna voce speciale per questo Paese, aggiungendo semplicemente alcune informazioni sotto la voce “Sudafricana, Unione”. In realtà, un’opera di consultazione dice chiaramente che la Repubblica Sudafricana rese ufficialmente l’Africa del Sud-Ovest una provincia della sua Unione il 31 ottobre 1934.

      Verso la seconda parte del diciannovesimo secolo le potenze europee erano occupate a suddividere l’Africa in sfere d’influenza. Ciascuna mirava a ottenere una grossa porzione delle sue risorse. Guardando in una vecchia enciclopedia di quel tempo, non si troverebbe sulla carta un paese chiamato Africa del Sud-Ovest, no, nemmeno Africa Tedesca del Sud-Ovest. Invece, a nord del fiume Orange, la costa occidentale dell’Africa aveva nomi come Gran Paese di Namaqua, Damara, Ovambo. Gli interessi tedeschi cominciavano appena a prendere piede in questa zona, che pressappoco a quel tempo rivendicarono come colonia.

      Ma poi la prima guerra mondiale cambiò tutto questo. La Germania fu costretta a cedere le sue colonie africane, e l’Africa del Sud-ovest fu posta dalla Lega delle Nazioni sotto mandato della Repubblica Sudafricana. Ora la Repubblica Sudafricana non desidera che il suo mandato su questo territorio sia sostituito da un’Amministrazione Fiduciaria delle Nazioni Unite. E pare che la maggior parte della popolazione dell’Africa del Sud-ovest sia contenta di continuare ad essere un territorio sotto mandato della Repubblica Sudafricana.

      Comunque le nazioni afro-asiatiche hanno abbracciato la causa della minoranza degli Africani del Sud-Ovest, essenzialmente a causa della politica di apartheid della Repubblica Sudafricana, politica che, asseriscono, fa discriminazione contro gli Africani non bianchi, opprimendoli. Nel 1966, però, la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite disse che queste nazioni afro-asiatiche non avevano nessun

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