Il caso Oneda: giustizia o pregiudizio?
IL 10 GENNAIO 1982, commentando la situazione in Polonia, Giovanni Paolo II ha enunciato un principio non meno valido in Italia: “Violentare le coscienze è un grave danno fatto all’uomo. È il più doloroso colpo inferto alla dignità umana. È, in un certo senso, peggiore dell’infliggere la morte fisica, dell’uccidere”. Tenendo presenti le suddette parole considerate quanto segue:
LA NASCITA della piccola Isabella, avvenuta nel dicembre del 1977, recò grande gioia ai suoi genitori, Giuseppe e Consiglia Oneda, abitanti a Sarroch, un paesino a circa venti chilometri da Cagliari. Isabella era la loro primogenita e divenne subito oggetto delle loro tenere cure.
Ora però Isabella è morta. I suoi genitori sono in prigione, dove stanno scontando una condanna a quattordici anni per omicidio volontario. Perché?
All’età di due anni e mezzo, dopo una grave malattia, Isabella morì. I suoi genitori si trovano attualmente in carcere perché l’autorità giudiziaria li ha ritenuti responsabili della sua morte. In dicembre sarà celebrato il processo d’appello davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Cagliari. Probabilmente ne sentirete parlare attraverso i mezzi di informazione. Ecco alcuni fatti che vi aiuteranno a capire quale vitale importanza riveste questo caso per quanto concerne la libertà in Italia, inclusa la vostra.
La vita di Isabella si poteva salvare?
Notate in breve gli avvenimenti che hanno portato alla triste e drammatica vicenda degli Oneda. Non molto tempo dopo essersi rallegrati per la nascita di Isabella, gli Oneda cominciarono a preoccuparsi per il pallore e l’aspetto malaticcio della bambina. La portarono alla II Clinica Pediatrica dell’Università di Cagliari dove, dopo approfonditi esami, i medici comunicarono a Giuseppe e Consiglia Oneda il terribile verdetto: la loro figlioletta di sette mesi era affetta da talassemia major, una inesorabile malattia ereditaria. Forse l’avete sentita chiamare “anemia mediterranea” poiché è particolarmente comune nei paesi mediterranei, compresa l’Italia. Dipende da un difetto genetico riscontrabile nel 10% dei siciliani e nel 34% dei sardi. Secondo alcuni studi, in certe parti della Sardegna il 25-30% dei bambini è affetto da questa malattia.
Perché la talassemia major è una malattia così terribile? Perché nonostante le cure che vengono somministrate, si tratta di un male inguaribile e ad esito inesorabilmente infausto! Perfino la Corte che ha condannato gli Oneda ha affermato: “Allo stato attuale la scienza medica non ha individuato una cura risolutrice delle talassemie”.a Le più avanzate terapie della medicina moderna possono al massimo ritardare l’inevitabile: una morte prematura.
Si può fare qualcosa per salvare il bambino affetto da talassemia major? La terapia più diffusa consiste nel somministrare trasfusioni di sangue una volta al mese circa. In alcuni casi, pare che le trasfusioni rallentino il fatale decorso della malattia, prolungando forse la vita di qualche anno. La sentenza emessa dalla Corte lo menziona, pur ammettendo che le ripetute trasfusioni di sangue (nonché altri interventi come la splenectomia, cioè l’asportazione della milza, e la terapia chelante, ossia la somministrazione di farmaci per ridurre il pericoloso accumulo di ferro nell’organismo) ‘non riescono a modificare “la prognosi quoad vitam, che rimane sempre infausta’”. Inoltre, le stesse terapie comportano un ulteriore ‘rilevante rischio’, in particolare l’“instaurarsi di processi morbosi, prevalentemente infettivi, in dipendenza talora anche delle stesse emotrasfusioni”.
Nella sentenza la Corte ammette pure che altri fattori negativi sono connessi con queste terapie: “[I bambini], consapevoli di non possedere in sé l’energia vitale, vivono in una condizione di estrema dipendenza dagli altri, mentre i trattamenti continui . . . [sono] per se stessi grave motivo di limitazione e di sofferenza”.
Una speranza e una decisione
Si può solo immaginare quanto fosse penoso per gli Oneda, mentre portavano regolarmente in clinica la loro bambina per farla curare, sapere che il massimo che i medici potevano fare per Isabella sarebbe solo stato per lei “grave motivo di limitazione e di sofferenza”. E nessuno, neppure gli specialisti nella cura delle talassemie, poteva sapere con certezza quando sarebbe entrata nello stadio terminale, che l’avrebbe condotta alla morte.
Dal punto di vista medico, Giuseppe e Consiglia Oneda non avevano nessuna prospettiva di guarigione per la loro figlia diletta. La loro unica speranza era ciò che avevano cominciato ad apprendere dalla Bibbia, cioè che l’Iddio Onnipotente, al tempo da lui stabilito, eliminerà infermità, dolori e morte, risuscitando anche coloro che egli ricorda con favore. Sì, avevano appreso dalla Bibbia che Dio promette di ‘inghiottire la morte per sempre’ e di ‘asciugare ogni lagrima dai loro occhi’. — Isaia 25:8; Rivelazione (Apocalisse) 21:4.
Gli Oneda, gravemente prostrati dalla malattia di Isabella e dalla prospettiva di un triste futuro, cominciarono a trarre conforto e speranza da questo messaggio biblico portato loro dai testimoni di Geova. Dal loro sincero studio della Bibbia appresero anche che Dio considera sacro il sangue. Lessero nelle Scritture il decreto apostolico secondo cui i cristiani devono ‘astenersi dalla fornicazione e dal sangue’. — Genesi 9:4; Levitico 17:10-14; Atti 15:28, 29.
Desiderando piacere a Dio in ogni cosa, gli Oneda informarono i medici della clinica che, per sinceri motivi religiosi, la loro coscienza non gli permetteva più di far somministrare alla figlia trasfusioni di sangue. Questo non primariamente a causa dei ben noti rischi della terapia trasfusionale, terapia che, nella migliore delle ipotesi, poteva solo ritardare la morte di Isabella. Anche la sentenza della Corte d’Assise di Cagliari, riferendosi all’obiezione di coscienza degli Oneda alla trasfusione di sangue per motivi religiosi, la definisce un’“assoluta impossibilità di consentire a tale trattamento essendo esso vietato dalla legge di Dio”. Gli Oneda, però, erano pronti ad accettare qualsiasi altra terapia utile. A tal fine infatti consultarono anche medici dell’Italia settentrionale, della Svizzera, della Germania e della Francia.
L’intervento delle autorità
Quando gli Oneda manifestarono la loro obiezione di coscienza basata sulla Bibbia, i sanitari della clinica ricorsero al Tribunale per i Minorenni di Cagliari. Prendendo atto che a motivo della loro religione e di ciò che gli dettava la coscienza gli Oneda non avrebbero potuto acconsentire alla cura emotrasfusionale di Isabella, il Tribunale ne affidò l’iniziativa alla Clinica Pediatrica. Cosa degna di nota, il Tribunale prescrisse alla clinica di mettersi in contatto con i carabinieri e i vigili urbani di Sarroch affinché questi provvedessero al trasporto della bambina in clinica per la cura trasfusionale. La clinica non sollevò obiezioni in merito a questa responsabilità. Dietro loro iniziativa Isabella fu ripetutamente prelevata e trasportata alla clinica dove i medici le fecero le trasfusioni di sangue. Le assistenti sociali, i vigili urbani e i carabinieri di Sarroch, nonché la Polizia Femminile della Questura di Cagliari, collaborarono con la clinica per ottemperare alle ordinanze del Tribunale per i Minorenni.
A metà marzo del 1980 un vigile urbano trasportò ancora una volta Isabella alla clinica, dopo di che quest’ultima lasciò passare mesi senza ottemperare alle prescrizioni della magistratura di provvedere affinché la bambina vi fosse trasportata nei giorni voluti dai sanitari. Non fu fatto nulla fino al 2 luglio, quando un altro vigile portò la bambina alla clinica. Isabella morì mentre il sangue le veniva trasfuso coattivamente.
Probabilmente sapete che spesso, quando capita qualche disgrazia, si cerca un capro espiatorio. Cosa è accaduto in questo caso?
Accusa di omicidio: perché?
Il 4 luglio furono emesse due comunicazioni giudiziarie. La prima, a carico del direttore della clinica, e la seconda nei confronti di Giuseppe e Consiglia Oneda. Il reato contestato era quello di omicidio colposo, cioè di avere provocato involontariamente la morte della bambina.
Ma il giorno dopo avvenne un sorprendente cambiamento. Gli Oneda furono arrestati e accusati di omicidio volontario. L’accusa contro l’eminente direttore della clinica fu del tutto ignorata e non ebbe alcun seguito, mentre quegli umili genitori, che erano stati oggetto di pressioni perché violassero la propria coscienza, furono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cagliari. Dopo venti mesi di prigione furono processati. Il 10 marzo 1982 gli Oneda furono riconosciuti colpevoli e condannati a 14 anni di reclusione più tre di libertà vigilata, e alla sospensione, per tutta la durata della pena, dell’esercizio della potestà di genitori nei confronti dell’altra figlia, Ester. Una condanna più severa di quelle inflitte ai terroristi a cui le autorità consentono di “pentirsi” e che scontano pene relativamente lievi nonostante abbiano ucciso decine di innocenti!
Anche se avete già sentito parlare di questo processo, ci sia permesso di sottolineare alcuni fatti ai quali non è stata data molta pubblicità.
Autorità pubbliche e pregiudizio religioso
Una delle prime indicazioni di tale pregiudizio religioso si rileva nel rapporto giudiziario redatto il 3 luglio 1980 dal maresciallo Angelo Sini, comandante della Stazione dei Carabinieri di Sarroch. Dopo aver fatto correttamente notare che gli Oneda avevano coscienziosamente fatto obiezione alla terapia emotrasfusionale e che il Tribunale per i Minorenni aveva attribuito la responsabilità di far curare Isabella alla II Clinica Pediatrica, il maresciallo Sini conclude il suo rapporto criticando i testimoni di Geova e affermando che la loro religione “permette ad esseri umani di morire con brutale e sadica spietatezza” e di celebrare “riti mostruosi”.
A prescindere dal fatto che i testimoni di Geova sono conosciuti in tutto il mondo per la grande considerazione in cui tengono la vita umana, dimostrata dal loro rifiuto dell’aborto e della guerra, le critiche del maresciallo Sini sono chiaramente fuori luogo. Chiedetevi: È corretto che un pubblico ufficiale, nel redigere un rapporto giudiziario, se ne serva per esprimere i propri pregiudizi?
Consideriamo quindi la requisitoria redatta in data 19 dicembre 1980 dal Pubblico Ministero dott. Ettore Angioni, che il 5 luglio aveva formulato l’accusa di omicidio volontario aggravato. (La prima volta che aveva mosso tale grave accusa contro gli Oneda, la cartella clinica e la perizia necroscopica non erano neppure disponibili, per cui egli non aveva nessuna prova dell’esistenza di un “nesso di causalità materiale” fra le loro presunte omissioni e la morte di Isabella). Nella sua requisitoria, il dott. Angioni definiva la fede religiosa dei testimoni di Geova un “comodo paravento di pseudo convinzioni religiose”. Pensate sia giusto o corretto che un magistrato faccia simili apprezzamenti su una religione legalmente riconosciuta dallo Stato italiano e seconda per numero di aderenti solo alla Chiesa Cattolica?
In seguito il giudice istruttore, dott. Mario Caddeo, ripeteva in maniera sorprendentemente identica questa stessa opinione preconcetta. Nella sentenza con cui gli imputati venivano rinviati a giudizio, il dott. Caddeo copiava quasi testualmente la requisitoria del dott. Angioni e definiva le credenze dei testimoni di Geova un “comodo paravento di pseudo convinzioni religiose”.
Non è evidente, dunque, che il caso Oneda, lungi dall’essere stato esaminato equamente, ha rivelato l’esistenza di un radicato pregiudizio religioso? Anche altri, d’altronde, hanno inquadrato la vicenda in questo senso.
Mauro Barni, ordinario di medicina legale all’Università di Siena, ha dichiarato: “Il dubbio infatti che si sia colpita non una responsabilità ma una confessione si affaccia prepotentemente come una spettrale idea, come una inquietante ipotesi di intolleranza e di insofferenza . . . Si sarebbe infatti punito un reato di opinione”. — Avanti!, 24 marzo 1982.
Analogamente, il giornalista Gregorio Donato ha scritto sul settimanale Com-Nuovi Tempi del 21 marzo 1982: “La vicenda dei coniugi Oneda ripropone il problema di un’effettiva libertà di religione nel nostro paese”. Qual è la vera ragione per cui gli Oneda sono stati condannati a 14 anni di reclusione? Il giornalista risponde: “Perché testimoni di Geova, posso affermare in coscienza dopo aver ripercorso tutto l’iter delle indagini, che hanno portato alla loro incriminazione, e aver seguito tutte le fasi del dibattimento”.
Sì, la drammatica vicenda degli Oneda fornisce la triste prova che la gente umile, senza una posizione o preminenza, può ancora essere privata, a causa di pregiudizi religiosi, del trattamento equo al quale avrebbe diritto. Continuerà a esistere “il problema di un’effettiva libertà di religione nel nostro paese”? Il processo di appello a carico degli Oneda darà ai giudici l’opportunità di mostrare se in Italia esistono ancora la libertà di religione e la libertà di coscienza. Come fa notare in breve l’articolo che segue, è in gioco anche la vostra libertà.
[Nota in calce]
a Corte d’Assise di Cagliari, 10 marzo 1982.
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Giuseppe Oneda, padre della bambina morta; insieme alla moglie deve scontare una lunga pena detentiva
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Giuseppe e Consiglia Oneda sono in questa prigione da oltre due anni. Dovranno rimanervi altri dodici anni?
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La II Clinica Pediatrica di Cagliari, dove a Isabella sono state somministrate trasfusioni di sangue, e dove è morta