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  • Riconciliazione
    Ausiliario per capire la Bibbia
    • (Col. 1:19-22) Geova Dio poteva ora ‘dichiarare giusti’ quelli che sceglieva perché divenissero suoi figli spirituali; essi non sarebbero stati soggetti a nessuna accusa dal momento che ora erano persone pienamente riconciliate e in pace con Dio. — Confronta Atti 13:38, 39; Romani 5:9, 10; 8:33.

      Ma che dire degli uomini che servirono Dio in epoche precedenti alla morte di Cristo, come Abele, al quale “fu resa la testimonianza ch’era giusto, rendendo Dio testimonianza riguardo ai suoi doni”, Enoc, che “ebbe la testimonianza d’essere stato accetto a Dio”, Abraamo, che “fu chiamato ‘l’amico di Geova’”, Mosè, Giosuè, Samuele, Davide, Daniele e molti altri, fra cui Giovanni il Battezzatore e i discepoli di Cristo (quelli ai quali Gesù disse prima di morire: “Il Padre stesso ha affetto per voi”)? (Ebr. 11:4, 5; Giac. 2:23; Dan. 9:23; Giov. 16:27) Geova ebbe a che fare con tutti loro e li benedisse. Come mai hanno dunque bisogno di una riconciliazione mediante la morte di Cristo?

      Questi evidentemente avevano avuto in una certa misura una riconciliazione con Dio. Tuttavia, come il resto del mondo del genere umano, per eredità erano ancora peccatori e si erano riconosciuti tali mediante i sacrifici animali offerti. (Rom. 3:9, 22, 23; Ebr. 10:1, 2) È vero, alcuni uomini avevano commesso peccati più gravi o evidenti, essendo apertamente ribelli; ma il peccato è peccato, qualunque sia la sua gravità o portata. Quindi, essendo tutti peccatori, tutti i discendenti di Adamo hanno senza eccezione bisogno della riconciliazione con Dio resa possibile dal sacrificio del Figlio suo.

      La relativa amicizia di Dio per uomini come quelli già menzionati aveva come base la loro fede, fede che includeva la convinzione che Dio a suo tempo avrebbe provveduto il mezzo per liberarli completamente dalla loro condizione peccaminosa. (Confronta Ebrei 11:1, 2, 39,40; Giovanni 1:29; 8:56; Atti 2:29-31). Quindi, quella misura di riconciliazione di cui godettero dipendeva dal futuro provvedimento di Dio del riscatto. Dio aveva considerato o riconosciuto in anticipo la loro fede come giustizia e, su questa base, e con l’assoluta certezza che in seguito egli stesso avrebbe provveduto un riscatto, Geova poté avere temporaneamente relazioni amichevoli con loro senza violare le sue norme di perfetta giustizia. (Confronta Romani 3:25, 26; 4:17). Comunque, le giuste esigenze della sua giustizia dovevano alla fine essere soddisfatte, affinché ciò che era stato loro “accreditato” potesse essere coperto dall’effettivo pagamento del richiesto prezzo di riscatto. Tutto questo esalta l’importanza del ruolo di Cristo nella disposizione di Dio, e dimostra che, senza Cristo Gesù, gli uomini non possiedono la giustizia che potrebbe renderli idonei a stare alla presenza di Dio. — Confronta Isaia 64:6; Romani 7:18, 21-25; I Corinti 1:30, 31; 1 Giovanni 1:8-10.

      Passi necessari per giungere a una riconciliazione

      Dal momento che Dio è la parte offesa la cui legge è stata ed è violata, è l’uomo che deve riconciliarsi con Dio, non Dio con l’uomo. (Sal. 51:1-4) L’uomo non si pub mettere sullo stesso piano di Dio, né la posizione di Dio in quanto a ciò che è giusto è soggetta a cambiamento, correzione o modifica. (Isa. 55:6-11; Mal. 3:6; confronta Giacomo 1:17). Le condizioni da lui poste per la riconciliazione sono dunque “inalterabili”, non soggette a discussione o compromesso. (Confronta Giobbe 40:1, 2, 6-8; Isaia 40:13, 14). Anche se molte traduzioni rendono Isaia 1:18 come segue: “‘Su, venite e discutiamo’, dice il Signore” (CEI; vedi anche Ga; VR; ecc.), una traduzione più corretta e coerente è: “‘Venite, ora, e mettiamo le cose a posto fra noi [“riconciliamoci”, Luzzatto]’, dice Geova”. (NM) La colpa alla base della frattura è tutta dell’uomo, non di Dio. — Confronta Ezechiele 18:25, 29-32.

      Questo non impedisce a Dio di prendere misericordiosamente l’iniziativa di aprire la via alla riconciliazione. Egli l’ha fatto per mezzo del Figlio suo. (Rom. 5:6-11) Gesù, che “non conobbe peccato”, fu “fatto peccato per noi” e morì come umana offerta per il peccato, al fine di liberare gli esseri umani dall’accusa e dalla pena del peccato. Sollevati dall’accusa del peccato, potevano così apparire giusti agli occhi di Dio, e quindi ‘divenire giustizia di Dio mediante Gesù’. — II Cor. 5:18, 21.

      Dio inoltre manifesta la sua misericordia e il suo amore inviando ambasciatori all’umanità peccatrice. Nell’antichità gli ambasciatori venivano inviati principalmente in tempo di ostilità (confronta Luca 19:14) non di pace, e spesso la loro missione consisteva nel vedere se si poteva evitare la guerra o nello stabilire condizioni di pace quando prevaleva uno stato di guerra. (Isa. 33:7; Luca 14:31, 32; vedi AMBASCIATORE). Dio invia i suoi ambasciatori cristiani per permettere agli uomini di conoscere le sue condizioni per la riconciliazione e di avvalersene. — II Cor. 5:20.

      Riconoscendo la necessità di una riconciliazione e accettando il provvedimento di Dio che la rende possibile, cioè il sacrificio del Figlio suo, la persona deve pentirsi della propria condotta peccaminosa, e convertirsi, vale a dire ritrarsi dal seguire la via del peccaminoso mondo del genere umano. Rivolgendosi a Dio sulla base del riscatto di Cristo, si possono ottenere il perdono dei peccati e la riconciliazione, e quindi ‘stagioni di ristoro dalla persona di Geova’ (Atti 3:18, 19), e pace della mente e del cuore. (Filip. 4:6, 7) Non più nemici esposti all’ira di Dio, in effetti ‘si passa dalla morte alla vita’. (Giov. 3:16; 5:24) Dopo di che si deve conservare la buona volontà di Dio ‘invocandolo in verità’, ‘rimanendo nella fede e non essendo smossi dalla speranza della buona notizia’. — Sal. 145:18; Filip. 4:9; Col. 1:22, 23.

      RICONCILIARE A SÉ UN MONDO

      L’apostolo Paolo dice che Dio “riconciliava a sé il mondo mediante Cristo, non annoverando loro i loro falli”. (II Cor. 5:19) Questo non va frainteso nel senso che tutti siano automaticamente riconciliati con Dio mediante il sacrificio di Gesù; infatti l’apostolo prosegue descrivendo l’opera di un ambasciatore che ‘supplica’ gli uomini di ‘essere riconciliati con Dio’. (II Cor. 5:20) In tal modo fu provveduto a tutti quelli del mondo del genere umano disposti ad accettarlo il mezzo per giungere alla riconciliazione. Perciò Gesù venne “per dare la sua anima come riscatto in cambio di molti”, e “chi esercita fede nel Figlio ha vita eterna; chi disubbidisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui”. — Matt. 20:28; Giov. 3:36; confronta Romani 5:18, 19; II Tessalonicesi 1:7, 8.

  • Ridere
    Ausiliario per capire la Bibbia
    • Ridere

      ebr. tsahhàq, sost. tsehhòq].

      Termini onomatopeici, cioè che suggeriscono o imitano il suono di ciò che rappresentano; tsehhòq, nella pronuncia ebraica, imita il suono di una risata (come si farebbe in italiano mettendo per iscritto le interiezioni “ho-ho” e “ha-ha”). Il nome di Isacco, Yitshhàq, che pure significa “risata”, ha la stessa qualità imitativa.

      Sia Abraamo che Sara risero agli annunci angelici che avrebbero avuto un figlio nella loro vecchiaia. Abraamo non venne ripreso per aver riso ma Sara sì, e cercò persino di negare di averlo fatto. Sembra dunque che Abraamo abbia riso di gioia alla sorprendente prospettiva di avere un figlio da Sara ora che era vecchio. La risata di Sara invece era evidentemente dovuta al fatto che la stessa sorprendente prospettiva la colpì come qualche cosa di umoristico: l’idea che una donna della sua età, finora sterile, avesse un figlio presentò dapprima alla sua mente un quadro piuttosto incongruente. In entrambi i casi però il fatto di aver riso non indicava scherno o voluta derisione, e tutti e due sono menzionati come esempi di fede nella promessa di Dio. (Rom. 4:18-22; Ebr. 11:1, 8-12) Quando il figlio nacque, i genitori furono senza dubbio felici, poiché questo era stato per anni il desiderio del loro cuore. Abraamo diede nome al figlio, dopo di che Sara disse (ATE): “Dio mi ha dato di che ridere; chi saprà il mio caso riderà”. (Gen. 17:17; 18:9-15; 21:1-7) Altri senza dubbio furono sorpresi e felici udendo la buona notizia della benedizione ricevuta dalla mano di Geova da Abraamo e Sara.

      UN TEMPO APPROPRIATO PER RIDERE

      Geova è il “felice Iddio”, e desidera che i suoi servitori siano felici. (I Tim. 1:11) Tuttavia le Scritture mostrano che solo in certi momenti è appropriato ridere. C’è “un tempo per piangere e un tempo per ridere”. (Eccl. 3:1, 4)

      Il saggio re Salomone ci consiglia: “Va, mangia il tuo cibo con allegrezza e bevi il tuo vino con un buon cuore, perché già il vero Dio s’è compiaciuto delle tue opere”. Non c’è invece alcuna vera ragione di rallegrarsi se la propria attività mostra mancanza di rispetto per le giuste vie di Dio. — Eccl. 9:7.

      PUÒ ESSERE INOPPORTUNO RIDERE

      La cosa importante è vivere in modo da farsi un buon nome presso Geova. Perciò, in questo sistema di cose, a volte ridere potrebbe essere del tutto inopportuno, perfino nocivo. Salomone, che fece l’esperimento di ‘attenersi alla follia finché poté vedere quale bene c’era per i figli del genere umano in quello che facevano’, disse in cuor suo: “Ora vieni, lascia che io ti provi con l’allegrezza. Inoltre, vedi il bene”. Ma si rese conto che era un’impresa vana. Riscontrò che l’ilarità e il riso in se stessi non danno vera soddisfazione, poiché non producono felicità vera e durevole. Per essere duratura, costruttiva, la gioia deve avere un buon fondamento. Salomone espresse così i suoi sentimenti: “Dissi al riso: Insania!’ e all’allegrezza: ‘Che fa questa?’”— Eccl. 2:1-3.

      Salomone illustra la sapienza di non vivere solo per la ricerca del piacere: “È meglio andare alla casa del lutto che andare alla casa del banchetto, perché quella è la fine di tutto il genere umano; e chi è in vita lo dovrebbe prendere a cuore”. Qui non viene raccomandata la tristezza considerandola superiore all’allegria. Si tratta di un momento particolare, il momento in cui qualcuno è morto e la casa è in lutto. Chi non è insensibile va a consolare i superstiti afflitti invece di dimenticarli, banchettare e far baldoria. Visitare coloro che fanno cordoglio non solo è di conforto per i familiari del defunto, ma induce anche il visitatore a ricordare che la vita è breve, a sapere che la morte che ha colpito questa casa verrà per tutti anche troppo presto, e che i viventi se lo dovrebbero ricordare. Mentre si è ancora in vita ci si può fare un buon nome, non quando si sta per morire. E un buon nome presso Dio è l’unica cosa di vero valore per il morente. — Eccl. 7:2; Gen. 50:10; Giov. 11:31.

      Salomone prosegue: “È meglio la vessazione che il riso, poiché mediante l’aspetto triste della faccia il cuore diviene migliore”. (Eccl. 7:3) Ridere è una buona medicina, ma ci sono momenti in cui dobbiamo considerare seriamente la nostra vita e come la stiamo vivendo. Se ci accorgiamo di sprecare troppo tempo in frivoli festeggiamenti e di non farci un buon nome compiendo opere buone, abbiamo ragione di irritarci con noi stessi, provare rammarico e cambiare; questo renderà migliore il nostro cuore. Ci aiuterà a farci un buon nome affinché il giorno della morte, o il tempo dell’ispezione finale da parte di Dio e di Cristo, sia migliore per noi del giorno della nascita. — Eccl. 7:1.

      “Il cuore dei saggi è nella casa del lutto, ma il cuore degli stupidi è nella casa dell’allegrezza”, aggiunge Salomone. “È meglio udire il rimprovero di qualche saggio che esser l’uomo che ode il canto degli stupidi”. (Eccl. 7:4, 5) In una casa dov’è morto qualcuno il cuore saggio s’intona alla serietà che è naturale in una casa in lutto e ciò lo induce a badare a come vive la propria vita, mentre la spensieratezza dove si fa baldoria alletta il cuore stolto e fa affrontare la vita con spirito superficiale, sconsiderato. Se uno si sta allontanando da sentieri giusti, il rimprovero di un saggio lo farà tornare sulla via della vita correggendolo e permettendogli di farsi un buon nome. Ma che utilità può avere udire il canto, il salmo o la vuota lusinga di uno stolto che nasconde gli errori e ci incoraggia a sbagliare? Indurrebbe a continuare a farci un cattivo nome, anziché ricondurci nelle vie che portano a farsi un buon nome presso Geova.

      “Come il suono delle spine sotto la pentola, così è il riso dello stupido; e anche questo è vanità”. (Eccl. 7:6) Spine o rovi non sono il miglior combustibile. Prendono subito fuoco, ma altrettanto rapidamente sono ridotti in cenere. Non durano abbastanza per finire di cuocere quello che c’è nella pentola, quindi non permettono di raggiungere lo scopo per cui si è acceso il fuoco. Il forte, vistoso crepitio della loro fiamma risulta quindi futile e vano. Così sono le ridicolaggini e i frivoli scherzi dello stolto. Inoltre il suono stesso della sua risata irrita, essendo fuori luogo e inopportuna per il tempo o l’occasione, e tende a scoraggiare invece di incoraggiare. Non aiuta nessuno a progredire nel serio impegno di farsi un buon nome che Dio ricorderà, e in tal modo assicurare che ‘il giorno della morte sia migliore del giorno della nascita’.

      RISO TRASFORMATO IN CORDOGLIO

      Nel Sermone del Monte, Gesù Cristo disse: “Felici voi che ora piangete, perché riderete”, e: “Guai a voi che ora ridete, perché farete cordoglio e piangerete”. (Luca 6:21, 25) Gesù voleva evidentemente far notare che quelli che erano tristi per le cattive condizioni religiose allora prevalenti in Israele, avendo fede in Lui potevano veder trasformare il loro pianto in riso, mentre quelli che ridevano e godevano la vita senza preoccuparsi del futuro avrebbero visto il loro riso trasformarsi in cordoglio. (Confronta Luca 16:19-31). Scrivendo ai cristiani, Giacomo fratellastro di Gesù esortò quelli di mentalità mondana: “Siate nella miseria e fate cordoglio e piangete. Il vostro riso si muti in gemiti, e la vostra gioia in abbattimento. Umiliatevi agli occhi di Geova, ed egli vi esalterà”. (Giac. 4:4, 9, 10) Simile esaltazione avrebbe recato vera felicità.

      IN SEGNO DI DERISIONE

      Nelle Scritture si parla spesso di ridere in segno di derisione. Anche la creazione animale è descritta nell’atto di ridere con scherno. La femmina dello struzzo (a motivo della propria velocità) ride del cavallo che la insegue e del suo cavaliere, e il cavallo (a motivo della propria forza e intrepidezza) ride del terrore quando si lancia nella mischia. (Giob. 39:13, 18, 19, 22) Viene detto che il Leviatan (coccodrillo) ride del vibrare del giavellotto, a motivo della sua pesante corazza. — Giob. 41:1, 29.

      Similmente i servitori di Dio, di fronte ai nemici, potevano ridere perché confidavano in Geova; infatti “il nome di Geova è una forte torre”. — Prov. 18:10.

      Quei servitori di Dio dovettero sopportare anche molte risate di scherno nei loro confronti. Giobbe disse: “Divengo oggetto di risa per il prossimo”. (Giob. 12:4; 30:1) Geremia veniva deriso tutto il giorno dai suoi contemporanei. (Ger. 20:7) Gesù Cristo stesso fu deriso e schernito prima di risuscitare la figlia di Iairo. (Matt. 9:24; Mar. 5:40; Luca 8:41-53) Però erano felici perché conoscevano la forza e la sapienza di Dio e seguivano il corso indicato loro da Dio. — Matt. 5:11, 12.

      Geova Dio è descritto nell’atto di ridere con scherno delle nazioni, delle loro parole vanagloriose che non approdano a nulla, e della confusione prodotta dalla loro stolta condotta contraria a Lui. (Sal. 59:8) Conosce la propria potenza e i suoi propositi, e ride della misera, futile opposizione a lui e al suo popolo. — Sal. 2:1-4.

      Perciò bisogna evitare che Geova rida di noi. Volgere le spalle alla sapienza di Dio provocherebbe terribile calamità. (Prov. 1:26) Anche se Geova non prova piacere che i malvagi muoiano (Ezec. 18:23, 32), non si preoccupa di quello che tramano contro il suo popolo e ride perché vede il giorno della liberazione dei giusti, in cui le macchinazioni dei malvagi falliranno e si porrà fine per sempre alla malvagità. — Sal. 37:12, 13, 20.

  • Rifugio
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    • Rifugio

      Vedi CITTÀ DI RIFUGIO.

  • Rimanente
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    • Rimanente

      Diversi termini ebraici e greci dal significato molto simile sono usati nelle Scritture a proposito di quelli che restano di una famiglia, nazione, tribù o razza; dei superstiti di una strage o distruzione; nel senso di posterità, cioè di coloro che sono in grado di portare avanti la discendenza, il nome o le attività di una nazione, tribù o gruppo; di quelli che rimangono fedeli a Dio da una nazione o gruppo di persone che si sono allontanate.

      Noè e la sua famiglia furono un rimanente del mondo del genere umano che precedette il Diluvio. Il verbo sha’àr, rimanere, è usato per descriverli come gli unici superstiti. (Gen. 7:23) In seguito, in Egitto, Giuseppe disse ai suoi fratelli: “Dio mi ha mandato davanti a voi onde abbiate sulla terra un rimanente [cioè per preservare la posterità e discendenza della famiglia; confronta II Samuele 14:7] e per mantenervi in vita”. — Gen. 45:4, 7.

      UN RIMANENTE DI ISRAELE RITORNA DALL’ESILIO

      I più frequenti riferimenti biblici a un rimanente riguardano coloro che erano il popolo di Dio. Per mezzo dei suoi profeti Dio avvertì gli israeliti che la loro disubbidienza sarebbe stata punita, ma offrì anche conforto predicendo che un rimanente sarebbe stato preservato, sarebbe tornato a Gerusalemme e l’avrebbe riedificata, avrebbe prosperato e portato frutto. — Isa. 1:9; 11:11, 16; 37:31, 32; Ger. 23:3; 31:7-9.

      Dopo che nel 617 a.E.V. Nabucodonosor re di Babilonia aveva portato via dei prigionieri insieme a Ioiachin re di Giuda, Geova diede al profeta Geremia una visione. In questa visione fichi buoni rappresentavano quelli portati in esilio in quell’occasione. Fichi cattivi rappresentavano il rimanente che rimase a Gerusalemme sotto il re Sedechia (in realtà la maggior parte degli abitanti di Gerusalemme e di Giuda); erano inclusi anche quelli che vivevano in Egitto. Nel 607 a.E.V., con la finale distruzione di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor, quasi tutti quelli che erano in Giudea furono uccisi o esiliati. E più tardi quelli che si trovavano in Egitto, inclusi quelli che vi fuggirono dopo il 607 a.E.V., soffrirono quando Nabucodonosor fece un’incursione in quel paese. — Ger. 24:1-10; 44:14; 46:13-17; Lam. 1:1-6.

      Geova promise al rimanente fedele, a quelli che si pentirono dei peccati a motivo dei quali aveva permesso che fossero portati in esilio, che li avrebbe radunati come un gregge in un ovile. (Mic. 2:12) Questo avvenne nel 537 a.E.V., col ritorno di un rimanente di ebrei sotto Zorobabele. (Esd. 2:1, 2) Essi un tempo ‘zoppicavano’, ma Geova li radunò, e (anche se erano sotto la dominazione persiana) poiché avevano come governatore Zorobabele e la vera adorazione venne ristabilita nel tempio, Dio era di nuovo il loro vero Re. (Mic. 4:6, 7) Sarebbero diventati come “rugiada da Geova”, che reca ristoro e prosperità, e sarebbero stati coraggiosi e forti come un “leone fra le bestie della foresta”. (Mic. 5:7-9) Quest’ultima profezia a quanto pare si adempì all’epoca dei Maccabei, e ne risultò la preservazione degli ebrei nel paese, e la conservazione del tempio fino alla venuta del Messia.

      Il nome del figlio del profeta Isaia, Sear-Iasub, includeva il sostantivo sheʼàr (verbo, shaʼàr) e significava “Un semplice rimanente ritornerà”. Il nome era un segno che Gerusalemme sarebbe caduta e i suoi abitanti sarebbero andati in esilio, ma che Dio avrebbe avuto misericordia e avrebbe riportato un rimanente nel paese. — Isa. 7:3.

      NESSUN RIMANENTE DI BABILONIA

      Babilonia fu usata da Dio per punire il suo popolo, ma eccedette e provò piacere nell’opprimerlo e maltrattarlo, e intendeva tenerlo in esilio per sempre. Questo in realtà accadde perché Babilonia era la principale esponente della falsa adorazione, e odiava Geova e la sua adorazione. Per queste ragioni Dio dichiarò: “E di sicuro stroncherò da Babilonia nome e rimanente e progenie e posterità”. (Isa. 14:22) Babilonia alla fine diventò una completa e permanente desolazione, e nessun rimanente tornò a riedificarla.

      UN RIMANENTE DI ISRAELE ACCETTA CRISTO

      Quando Gesù Cristo si presentò alla nazione di Israele la maggioranza lo rigettò. Solo un rimanente manifestò fede e lo seguì. L’apostolo Paolo applica certe profezie di Isaia (10:22, 23; 1:9) a quel rimanente ebraico e scrive: “Inoltre, Isaia grida riguardo a Israele: ‘Anche se il numero dei figli d’Israele fosse come la sabbia del mare, è il rimanente che sarà salvato. Poiché Geova farà una resa dei conti sulla terra, portandola a termine e abbreviandola’. E come Isaia aveva detto anteriormente: ‘Se Geova degli eserciti non ci avesse lasciato un seme, saremmo divenuti come Sodoma, e saremmo stati resi come Gomorra’”. (Rom. 9:27-29) Un’altra volta Paolo usa l’esempio dei settemila rimasti che all’epoca di Elia non si erano inchinati a Baal, e dice: “In questo modo, perciò, vi è anche al tempo presente un rimanente secondo l’elezione dovuta all’immeritata benignità”. — Rom. 11:5.

      IL RIMANENTE SPIRITUALE

      In Rivelazione (cap. 12) Giovanni descrive la visione

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