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Lo scopo della mia vitaLa Torre di Guardia 1962 | 1° gennaio
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pensato a ciò. A volte, quando un giorno dopo l’altro non incontravo che opposizione o indifferenza, e mi chiedevo: “Signore, fino a quando?” mi ritornavano in mente quelle parole e ricordavo che l’unica cosa da tenere in considerazione era la prova della mia fede. Che importava se le persone non ascoltavano? se mi sbattevano la porta in faccia o mi scacciavano con la scopa? non perseveravo? che cos’altro contava?
Naturalmente, avevamo particolari gioie che ci aiutavano a perseverare. Una di queste l’avemmo quando trovammo nella nostra cassetta delle lettere due lunghe buste provenienti dall’ufficio del presidente. La nostra gioia fu senza limiti quando leggemmo l’invito a frequentare la Scuola di Galaad per ricevervi speciale addestramento per il servizio missionario estero. Ridemmo e piangemmo e chinammo il capo dinanzi a Geova per ringraziarlo di questo indicibile privilegio. Ma, un momento! Questo significava lasciare mio figlio, per non rivederlo forse mai più. Pur essendo entusiasta, sapevo di dover prendere un’altra difficile decisione. Ero estremamente divisa tra il desiderio di andare e il pensiero di lasciare mio figlio, e mi chiedevo quale fosse il mio dovere. Dopo aver chiesto consiglio ai fratelli più anziani nella verità presi la mia decisione: andare a Galaad.
Nel settembre del 1943 io e Barbara eravamo nella seconda classe. Che meravigliosa esperienza! Fu come assaporare la vita nel Nuovo Mondo. Eravamo in un mondo a parte, dove potevamo gioire delle verità della Parola di Dio e godere di continuo della compagnia dei fratelli. Finì troppo presto. Si combatteva ancora la seconda guerra mondiale ed era difficile entrare in molti paesi. Anche i viaggi erano notevolmente ridotti. Ricevemmo quindi un’assegnazione temporanea; alcuni di noi andammo a Perth Amboy, nel New Jersey, e nei due anni successivi lavorai con quella congregazione. Nell’estate potevo trascorrere varie settimane nella Louisiana con mio figlio.
VERSO PANAMA
Il 27 dicembre 1945 fu un altro giorno importante. Quel giorno giungemmo alla nostra nuova assegnazione, nel Panama. Fummo mandati a Colón, città di circa 50.000 abitanti, situata allo sbocco del Canale di Panama, da quella parte dell’Istmo che si affaccia sull’Atlantico. Con l’aiuto di un fratello nativo trovammo una casa conveniente, mobili, cibo e altre cose necessarie per sistemarci dovutamente. La nostra assegnazione ci piaceva molto e attendevamo con ansia di cominciare l’opera fra il popolo. Le loro case, il loro cibo, il loro modo di vivere, divennero oggetto di profondo interesse.
Quando arrivammo nella piccola congregazione vi erano quindici proclamatori. Lavorammo assiduamente, tenendo in media ventidue studi al mese, e presto la congregazione cominciò a crescere. In essa regnava uno spirito di gioia e intimità. Amavamo teneramente i nostri fratelli e volevamo aiutarli in ogni modo possibile, ed essi facevano altrettanto con noi.
Lo spagnolo che conoscevamo era molto limitato, ma le persone che lo parlavano e che incontravamo nell’opera di porta in porta erano assai soccorrevoli. Molte studiavano con noi al solo scopo di vedere i nostri tentativi di parlare la loro lingua e aiutarci. Alcune persone conoscevano l’inglese, ma non ce lo fecero mai sapere e ce ne accorgemmo solo anni dopo. Apprezzammo i loro sforzi di farci parlare la loro lingua; ci aiutarono ad impararla.
Nel novembre del 1947 fui trasferita nella città di Panama per lavorare nella filiale della Società.
Fino a quel tempo avevo sofferto molto per mio figlio. Egli aveva scritto molto raramente nei due anni trascorsi da quando l’avevo visto per l’ultima volta, e spesso il mio cuore si doleva per lui; ma cominciavo a rendermi conto che Geova mi dava molti “figli”, come aveva promesso, e non solo figli, anche figlie e padri e madri e case. (Mar. 10:29, 30) Mi divennero cari come il mio stesso figlio. Amavo teneramente il mio lavoro e la mia assegnazione. Il pensiero d’abbandonarli non passò mai per la mia mente.
Nella città di Panama fui mandata a lavorare con la congregazione inglese, e vi trovai alcuni fratelli e sorelle nuovi nella verità che avevano bisogno di aiuto. Fui molto felice di poterli aiutare, e come furono ansiosi di accettare i suggerimenti e di metterli in pratica! Lavorai dieci anni con quella congregazione. La vidi crescere fino al punto di dividersi e suddividersi, ed ora, nel territorio un tempo assegnatole, vi sono dieci congregazioni.
LE RICOMPENSE DELLA FEDELTÀ
Che emozione vedere i fratelli, fra cui molti che avevo trovato e con i quali avevo studiato, avanzare verso la maturità e prendere il loro posto nella società del Nuovo Mondo, alcuni come servitori di congregazione, altri come pionieri o pionieri speciali! È stata una gioia vederli divenire servitori capaci, adempiere certi compiti che io ero solita curare, lavorare nei reparti di un’assemblea dell’organizzazione, pronunciare discorsi pubblici e portare nuovi nell’organizzazione! Immaginate la gioia che si prova nell’udire un cieco, che trovaste seduto disperatamente dietro casa sua, esprimere di continuo la sua gratitudine per la verità che con pazienza gli avete insegnata e che egli predica ora zelantemente ad altri, dicendo loro che quando poteva vedere era cieco, ma ora che è cieco può vedere? Queste sono le cose che vi fanno felici perché anni fa rispondeste all’invito di fare i pionieri, le cose vi fanno capire che prendeste una buona decisione allorché decideste di lasciarvi dietro gli altri interessi mettendo al primo posto il servizio a Dio.
Nel 1950 tornai negli Stati Uniti a trovare mia madre e mio figlio, che si era sposato, e partecipai alla grande assemblea del 1950 a New York.
Due anni dopo la mia salute peggiorò e dovetti subire un’operazione chirurgica. Un anno intero rimasi lontana dalla mia assegnazione estera, ma durante quell’anno, che passai da mia madre, ebbi la gioia di vedere lei e una nipote accettare la verità, grazie ai miei sforzi. Nel 1953 mia madre partecipò insieme a me all’Assemblea della Società del Nuovo Mondo, dopo di che io ritornai a Panama, grata di poter continuare a perseguire lo scopo della mia vita.
Ripresi il lavoro da dove l’avevo interrotto in una comunità isolata, e nel 1955 aiutai ad organizzarvi una piccola congregazione. L’anno successivo provai gioia sposando un mio compagno missionario venuto nel Panama nel 1951 per lavorare nella filiale, ma dolore quando seppi della morte della mia diletta madre.
Giunse infine il 1958 con la meravigliosa Assemblea Internazionale “Volontà Divina”. Certo fummo presenti per goderla pienamente. Dopo l’assemblea trascorremmo piacevoli vacanze andando a visitare amici e familiari, e quando tornammo nel Panama avemmo una gioiosa sorpresa: l’opera di circoscrizione! Mio marito fu mandato a servire la circoscrizione inglese, quella che io avevo aiutato a formare. Ero allora nel Panama da quasi tredici anni, e i fratelli che avevo conosciuti e molti che avevo aiutati nell’acquistare conoscenza della verità abitavano in vari luoghi di questa circoscrizione. Non vedevo alcuni di loro da anni, quindi fui molto felice di poterli visitare, vedere come progredivano e aiutarli e incoraggiarli come potevo, essendo la moglie di un servitore di circoscrizione. Avemmo meravigliose esperienze l’anno che fummo in questa assegnazione.
Attualmente mio marito è servitore di congregazione di una piccola congregazione nella zona del Canale dove c’è particolare bisogno di fratelli maturi che parlano inglese. Inoltre lavora nella filiale, mentre io svolgo l’opera di missionaria nel territorio della congregazione ed ho molte interessanti esperienze. Credetemi: La vita missionaria non è vuota!
Chi rimane al suo posto nell’organizzazione di Geova è davvero la creatura più benedetta. È vero che vi possono essere dei dolori, come nel mio caso e nel caso di molti altri che hanno abbandonato i loro cari, ma ci sono state riservate profonde e gradite gioie! Ricche benedizioni spirituali e privilegi di servizio! Ho compreso che la mia felicità non dipende dal fare la mia propria volontà, ma dal fare la volontà divina nel posto assegnatomi da Geova.
Ora comincio a sentire il peso dei miei anni, ma lo scopo della mia vita non è stato ancora del tutto raggiunto. Spero di continuare a servire Geova di continuo fino alla battaglia di Armaghedon, per poi partecipare alla purificazione della terra rendendola un paradiso. Voglio essere ancora qui, nella mia assegnazione, quando figli nasceranno alla giustizia e morti usciranno dalle tombe, quando sopraggiungerà la prova finale recata da Satana, e quando, scomparsi tutti i dolori e le afflizioni, sarà possibile presentarsi a Geova nell’umana perfezione, insieme a una grande folla di persone, per ricevere il premio dalla Sua mano: giustificati per ottenere la vita!
Quindi, perché non fare i pionieri?
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Che ci vuole per fare un cristiano?La Torre di Guardia 1962 | 1° gennaio
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Che ci vuole per fare un cristiano?
MILIARDI di lire sono spese ogni anno per promuovere l’opera missionaria in paesi non cristiani. In remote parti del globo, migliaia di persone sono condotte al cristianesimo mediante benefici materiali che derivano da queste offerte. Ma sono tali convertiti veri cristiani? È retto il loro motivo di professare il cristianesimo quale loro religione? È abbastanza forte da sussistere in tempo di prova? Un avvenimento riportato dal Journal di Ottawa del 28 maggio 1960 risponde a queste domande.
In una lontana regione delle Isole Filippine un dottore missionario notò una volta uno sconsolatissimo Igorot che sedeva al lato della strada. Il povero nativo sembrava così completamente rovinato che il dottore si fermò per chiedergli che cosa aveva. L’uomo scoraggiatamente rispose che si sentiva molto male. Il dottore chiese perché. Quando Igorot disse che il vescovo sarebbe venuto il giorno successivo, il missionario lo rassicurò che il vescovo era un buon uomo e non avrebbe fatto del male a nessuno.
Il nativo prontamente acconsentì, dicendo con calore che il vescovo gli piaceva. “Allora”, disse il dottore, “che cosa c’è che non va?” “Quando fu qui l’ultima volta”, rispose, “mi diede un cappello e io divenni episcopaliano”. “Benissimo. È una buona religione”, assicurò il dottore.
Il nativo cominciò quindi a spiegare che un po’ dopo venne un sacerdote cattolico che gli diede un paio di pantaloni, ed egli divenne cattolico. “Bene”, disse il dottore, “anche il cattolicesimo è una buona religione”. Tristemente il nativo disse che il sacerdote se ne era ora andato via e il vescovo tornava, ed egli non voleva far dispiacere al vescovo. Il pover’uomo aveva un aspetto così triste mentre considerava il suo problema che il missionario gli chiese infine quale gruppo desiderava scegliere. “Io penso”, disse il nativo, “di ridare il cappello al vescovo e i pantaloni al sacerdote, e semplicemente essere di nuovo pagano”.
Questa può sembrare una storiella umoristica; comunque, pone in risalto questo triste fatto: molti hanno accettato il cristianesimo non perché in cuor loro lo apprezzassero, ma a causa della sua popolarità e dei benefici materiali che ne derivano. Questo avviene non solo nei paesi non cristiani ma anche nelle nazioni che professano il cristianesimo. Se si trovassero in una condizione simile, quanti cristiani d’oggi somiglierebbero al vecchio Igorot che desiderava restituire il cappello e i pantaloni per essere di nuovo pagano?
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