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Lo zucchero e il suo amaro passatoSvegliatevi! 1983 | 22 marzo
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Lo zucchero e il suo amaro passato
ERA l’anno 1829. Un bastimento a vela di trecento tonnellate salpò da un porticciolo nelle Indie Occidentali, puntò la prua in direzione sud-sud-est e prese il largo. A bordo c’erano il comandante, un altro ufficiale e cinquantacinque uomini laceri e rozzi di varie nazionalità, razze e ceti sociali: tutti membri dell’equipaggio. Nella stiva c’erano sedici cannoni di ferro a canna corta, polvere da sparo, palle da cannone da dieci chili, granate a mano, un carico di rum delle Indie Occidentali, collane di coralli e altri articoli, e una scorta di viveri. Sul ponte, da poppa a prua, moschetti, munizioni e armi da taglio.
Dopo settantasei giorni di viaggio durante i quali erano stati sballottati da venti di burrasca in un mare schiumeggiante e sempre più agitato, la nave e il suo equipaggio giunsero a destinazione: un porto portoghese del Mozambico sulla costa orientale dell’Africa.
Dopo soli otto giorni, durante i quali era stata scaricata e aveva preso a bordo il nuovo carico, la piccola nave riprese il mare diretta a Cuba, lasciando all’ancora quattordici navi più grandi in attesa di riempire le stive con un carico della stessa specie.
Con lo scafo profondamente affondato nell’acqua, il ponte quasi perennemente spazzato dalle acque turbolente, la nave trasportava un carico che divenne motivo di continua apprensione per gli uomini dell’equipaggio. Nella sua stiva era ammassato un carico prezioso: ottocento uomini, donne e bambini negri, tutti nudi, tutti con la testa rasata, tutti marchiati, senza eccezione. Un carico prezioso per i coltivatori di canna da zucchero delle Indie Occidentali di cui sarebbero diventati schiavi e i cui raccolti avrebbero trasformato in zucchero col sudore della loro fronte; e prezioso per i proprietari e il comandante della nave che dalla vendita degli schiavi potevano ricavare un profitto superiore a centomila dollari.
Incatenati alle caviglie a due a due, quelli ammassati a dritta guardavano verso prua mentre quelli a sinistra guardavano verso poppa, tutti stretti l’uno in grembo all’altro, come tanti cucchiai in un cassetto.
Il lettore cerchi di immaginare una sala in cui siano sedute ottocento persone; poi trasferisca letteralmente lo stesso numero di persone in uno spazio piccolissimo, largo appena pochi metri e lungo pressappoco quanto un vagone ferroviario, e la frase “fitti come sardine” calza a pennello. La stiva era stata riempita in questo modo, mentre il resto degli schiavi era legato sul ponte.
Ottocento misere anime in mezzo al mare. Una delle più grandi catastrofi che potesse abbattersi su una nave negriera era quella di veder ridurre di quasi metà il numero degli schiavi prima di arrivare a Cuba. Vaiolo! La parola stessa seminò il terrore fra gli uomini dell’equipaggio quando la prima vittima nella stiva ne fu colpita. Il temibile flagello si propagò in fretta. I morti furono calati in mare uno dopo l’altro appena spirati. Di un carico di ottocento ne rimasero solo quattrocentottanta. Non sopravvisse nemmeno il comandante della nave.
Sin dall’inizio uomini interessati che avevano fiutato la possibilità di ricavare qualcosa dalla domanda di zucchero non si lasciarono sfuggire l’occasione. Alcuni missionari religiosi in Africa abbandonarono la tonaca e il gregge e allungarono le mani avide sulla torta mettendosi addirittura a vendere i loro convertiti negri ai mercanti di schiavi. Perfino il papa, Niccolò V, comprendendo il guadagno che si poteva ricavare dal commercio dello zucchero, diede la sua benedizione alla schiavitù.
Le navi negriere solcavano l’oceano dall’Africa al mondo occidentale in modo così regolare che se una nave avesse potuto scavare un solco permanente mentre fendeva le acque, soltanto in pochi brevi anni sarebbe stato scavato un grande canale nel letto dell’oceano dall’Africa alle Indie Occidentali. Navi assalivano altre navi in alto mare per impossessarsi delle pelli nere incatenate e stipate nelle stive. Di qui la necessità d’avere cannoni e armi a canna corta per proteggere il prezioso carico.
È il caso di ricordare che, quando è in gioco l’interesse, non si guarda troppo per il sottile. Sia bianchi che negri si mostrarono avidi. Quindi al negriero non mancavano complici tra gli africani. Se l’esca era abbastanza allettante, bastava a mettere un negro contro l’altro, un parente contro l’altro, una tribù contro l’altra. Fu così che per i mercanti di schiavi divenne sempre più facile acquistare la loro merce viva. Le donne negre vendevano i propri schiavi, bottino di guerre tribali, in cambio di una nuova collana di coralli. Il guerriero combatteva più accanitamente per vincere la battaglia e poter vendere i vinti per un barile di rum. Dato che allora in Africa le monete non erano conosciute, i negrieri riempivano le stive delle loro navi con le scorte necessarie e con quelle mercanzie che non avevano nessun valore per l’uomo bianco, ma considerate lussi dal negro, che le accettava in cambio dei suoi fratelli negri. In questo modo veniva soddisfatta l’avidità di tutti.
Quanti africani sopravvissero alla traversata dell’oceano nel trasferimento da un continente all’altro per andare a spezzarsi la schiena e le reni nelle piantagioni di canna da zucchero non è dato sapere. Un demografo moderno ha calcolato la cifra moderata di quindici milioni. Uno storico inglese ha detto: “Non è un’esagerazione dire che ben venti milioni di africani furono fatti schiavi, e due terzi di essi si devono imputare allo zucchero”.
Caro lettore, riesci a capire cosa significa essere sradicati dal proprio paese, anzi, dal proprio continente, ed essere trasportati attraverso l’oceano, in un viaggio della durata di mesi, e una volta sbarcati esser messi in gabbia e venduti all’asta pubblica, ogni familiare separatamente, in molti casi per non rivedersi mai più? Sì, il prezzo dello zucchero non andrebbe calcolato in chili ma in vite! E mentre le navi solcavano i mari, i coltivatori di canna da zucchero aravano le loro terre per prepararle a una maggiore coltivazione e produzione di questo dolce oro bianco chiamato zucchero.
Benché nel XVI secolo la canna da zucchero fosse un prodotto relativamente nuovo nel mondo occidentale, era nota fin dai tempi di Alessandro Magno. La canna da zucchero era stata scoperta in India nel 325 a.E.V. da uno dei suoi soldati.
Al tempo di Nerone, nel primo secolo dell’era volgare, un medico greco pensò forse di essere stato il primo a scoprire da dove estrarre lo zucchero, infatti scrisse: “Esiste una specie di miele duro chiamato saccharum (zucchero) che in India si trova sulle canne. È granuloso come il sale e friabile sotto i denti ed ha al tempo stesso un sapore dolce”.
Lo zucchero cominciava a piacere. La canna da zucchero veniva sradicata in Estremo Oriente e trapiantata in Europa. Gli arabi la portarono con sé in Egitto, in Persia e in Spagna quando conquistarono quel paese nell’ottavo secolo. E nei successivi duecento anni l’unico zucchero prodotto in Europa fu quello spagnolo.
Fu dalla Spagna che durante il suo secondo viaggio Cristoforo Colombo portò delle talee nell’emisfero occidentale, piantandole in quella che ora è chiamata Repubblica Dominicana, nelle Indie Occidentali. Già prima la Cina, che non intendeva negarsi questo dolce lusso, aveva mandato degli uomini in India per conoscere il mistero di come ricavare zucchero dalla canna. In seguito Marco Polo descrisse gli zuccherifici cinesi come una delle grandi meraviglie di quel paese.
I crociati, sotto la guida dei papi e con la loro benedizione, avevano cercato di strappare Gerusalemme ai turchi. Al loro ritorno in patria fecero racconti coloriti su questa nuova strana sostanza dolce chiamata zucchero. Furono subito stabilite rotte commerciali dello zucchero tra l’Oriente e l’Europa. Ma lo zucchero era caro e solo i ricchi potevano permetterselo. In tempi relativamente recenti, nel 1742, a Londra lo zucchero costava sulle seimila lire al chilo. Quando i poveri assaggiarono questa dolce mercanzia anch’essi ne furono conquistati. I governanti lungimiranti capirono quali nuovi proventi potevano entrare nelle loro casse. L’inno allo zucchero cominciava a sentirsi in varie parti del mondo.
Spagna e Portogallo compresero che alcuni paesi stavano arricchendosi grazie al commercio dello zucchero con l’India. Anch’essi volevano una fetta di torta. Subito mandarono bastimenti a vela nei mari sconosciuti per trovare una nuova e più veloce rotta per l’India. Cristoforo Colombo fu uno di quelli che partirono, ma scoprì invece le Indie Occidentali. E il suo errore fu largamente ricompensato, poiché vi trovò il clima e il suolo ideali per la coltivazione della canna da zucchero.
Giunsero poi i colonizzatori spagnoli che portarono via la terra agli indigeni. Questi ultimi divennero loro schiavi ma si dimostrarono inadatti per lavorare nelle piantagioni di canna. Così nel 1510 re Ferdinando di Spagna acconsentì al trasporto di una grande nave di schiavi dall’Africa. Ebbe inizio in tal modo lo spietato traffico di vite umane attraverso i mari, traffico che continuò per oltre trecento anni.
Intanto l’Inghilterra vantava, e non a torto, la più grande flotta che solcasse i sette mari. E quando giunse il momento buono per occuparsi del commercio dello zucchero e della tratta degli schiavi, la sua potente flotta arrivò nelle Indie Occidentali e ne cacciò gli spagnoli. L’Inghilterra sarebbe presto diventata il centro dell’industria zuccheriera del mondo. “La voluttà, la gloria e la grandezza dell’Inghilterra sono stati favoriti più dallo zucchero che da qualsiasi altro bene, non eccettuata la lana”, disse un cavaliere inglese di quell’era.
L’opinione che l’Inghilterra aveva della tratta degli schiavi e delle incredibili sofferenze procurate a un popolo è riassunta appropriatamente da ciò che disse una nota personalità politica di quella nazione: “L’impossibilità di fare a meno degli schiavi nelle Indie Occidentali impedirà sempre che si smetta questo traffico. La necessità, l’assoluta necessità quindi di continuare, dev’essere la sua giustificazione, non essendocene altra”. E infatti ‘continuò’. Basti questa osservazione resa pubblica nel XVIII secolo quando la tratta degli schiavi da mandare nelle piantagioni di canna da zucchero era al culmine: “Nessun barile di zucchero arriva in Europa senza essere macchiato di sangue”.
Ovviamente gli inglesi fecero un patto con i complici africani per ottenere una tariffa ridotta sugli acquisti in gran quantità. Ecco perché un lord inglese ebbe a vantarsi: “In quanto all’offerta di negri, abbiamo una così netta superiorità nel mercato africano che gli schiavi ci sono concessi a un sesto di meno”.
Essendo evidente a tutti che lo zucchero non era più una mania passeggera ma che aveva preso piede e che gli schiavi dell’Africa erano un’assoluta necessità per mantenere in vita questa industria, la domanda più importante e persistente nella mente di tutti gli interessati era: quanto ci vorrà prima che la tratta degli schiavi cessi per esaurimento della materia prima? La risposta non tardò a venire. Ecco cosa scrisse un governatore africano della Costa d’Oro: “Non solo l’Africa può continuare a rifornire le Indie Occidentali nelle quantità provvedute finora, ma, se fosse necessario, potrebbe procurarne altre migliaia, anzi, altri milioni”.
Ma non doveva andare così. Erano già all’opera forze che contrastavano aspramente il disumano traffico di negri, e voci di protesta si levavano da varie parti del mondo. Fu impiegato ogni mezzo possibile per far capire il loro messaggio e far cessare la schiavitù. Si noti, ad esempio, questo annuncio pubblicitario: “La B. Henderson China Warehouse — Rye Lane Peckham [un emporio di porcellane] informa rispettosamente gli amici d’Africa che ha messo in vendita un assortimento di zuccheriere con questa scritta a lettere dorate: Lo zucchero dell’India Orientale non è fatto dagli schiavi”. E poi diceva: “La famiglia che usa circa due chili e mezzo di zucchero la settimana, usando quello dell’India Orientale invece di quello dell’India Occidentale per ventun mesi, impedirà che un suo simile sia fatto schiavo o ucciso. In diciannove anni e mezzo otto famiglie di questo tipo impediranno che cento persone siano fatte schiave o uccise”.
Col passar del tempo un paese dopo l’altro emise nuove leggi che vietavano la tratta degli schiavi. Gli Stati Uniti, però, che fino a quel momento avevano acquistato lo zucchero da Cuba, il loro vicino del sud, si gettarono a capofitto nel commercio dello zucchero e degli schiavi, e lo stato meridionale della Louisiana, con le sue nuove piantagioni di canna da zucchero, ne divenne il centro. Gli schiavi che non potevano essere utilizzati lì, si potevano impiegare nelle piantagioni di cotone del Sud.
Per oltre tre secoli lo zucchero ha regnato sovrano nel mondo, esigendo un tributo che supera l’immaginazione. Nessun altro bene sulla faccia del pianeta è stato strappato alla terra o al mare, ai cieli o al sottosuolo causando tanta miseria e tanto spargimento di sangue umano com’è avvenuto con lo zucchero. Com’è dolce oggi! Ma il suo passato è amaro come il fiele.
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Lo zucchero è dolce oggi?Svegliatevi! 1983 | 22 marzo
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Lo zucchero è dolce oggi?
MI RICONOSCETE? I miei amici scienziati mi conoscono con la formula C12 H22 O11 Da che ho fatto il mio debutto sulla scena mondiale ho sempre avuto un posto di rilievo. Varie volte, nel corso della storia, e in molte parti della terra, sono stato considerato più prezioso e anche più raro dell’oro. Ricordo quella volta in Cina quando alcuni principi indiani dovevano pagare il tributo all’imperatore, e quel governante cinese preferì che fosse pagato dando me anziché l’oro.
La mia presenza ha causato grandi dispute e controversie in maestosi palazzi governativi e grandi sale parlamentari in diverse parti del mondo. Non mi fa piacere dire che per causa mia milioni di persone sono state letteralmente rese schiave e altri milioni ancora sono morte.
Oggi sono di nuovo al centro di grandi controversie. Alcuni dicono che dovrei essere bandito dalla faccia della terra per sempre. Altri dicono che sono raffinato, dolce e necessario, e non quel malvagio che mi si accusa d’essere.
Ora mi riconoscete? Sono lo zucchero di cui, dice una popolare canzone degli anni sessanta, basta un poco e “la pillola va giù, la pillola va giù”. Sono lo zucchero in cui quando eravate piccoli la mamma immergeva il ciuccetto per tenervi buoni mentre lei faceva i lavori di casa. Sono lo zucchero che ricopre le vostre pillole lassative e che addolcisce le medicine altrimenti amare che bevete. Sono nei cosmetici con cui vi truccate il viso e nelle gomme sintetiche e nella plastica che letteralmente vi circondano. Sono stato impiegato nella stagionatura del cuoio di cui sono fatte le scarpe che portate. Chi fuma trova un po’ di me anche nelle sigarette. Quando tingete gli abiti, io sono presente. Se uno muore ed è sepolto in una bara rivestita di plastica, io sono anche lì. Sono presente nella vostra vita, letteralmente, dalla culla alla tomba.
Oltre a tutte queste e ad altre cose c’è quella per cui sono più famoso, la capacità di soddisfare l’insaziabile desiderio di qualcosa di dolce. E qui sta il paradosso. I miei pregi, per i miei avversari, sono difetti. Essi affermano che sono in ogni cosa e in ogni luogo. Negarlo, naturalmente, equivarrebbe a non tener conto dei fatti. Sono il primo a dire che il più delle volte si abusa di me.
È ragionevole dire che un po’ di zucchero aiuta a mandar giù la pillola. Ma è ragionevole che un po’ di zucchero aiuti a mandar giù anche il ketchup, la salsa di pomodoro o la maionese? O il pane, le verdure in scatola, o, ci credereste, il sale, per menzionare qualche altra cosa? C’è bisogno di zucchero nei salatini?
Perché dovrei essere uno dei principali ingredienti in cibi che, anzitutto, non vi aspettereste abbiano un sapore dolce? Se siete ghiotti di dolci sapete che sgranocchiando un biscotto soddisfate probabilmente il vostro desiderio. Ma non è piuttosto strano che un cracker salato serva altrettanto bene allo scopo visto che ha un contenuto del 12 per cento di zucchero? Mangiando una tavoletta di cioccolata potete aspettarvi di consumare il 51 per cento di zucchero. Ma quello che forse vi lascia un po’ perplessi è scoprire che consumate la stessa quantità di zucchero mangiando certi tipi di pollo già impanato e pronto per friggere.
Non sono un genio, e non bisogna esserlo per stabilire che l’industria alimentare e conserviera aggiunge quel po’ di zucchero a quasi tutti i prodotti commestibili evidentemente con l’idea che andrà giù più facilmente, che io sia necessario no. Questo vuol dire abusare di me. Ed è un’altra arma nelle mani dei miei critici.
Considerate, ad esempio, il consumo mondiale di zucchero nel 1982: si calcola che abbia superato i novantadue milioni di tonnellate. Gli americani e molti altri consumano a testa circa trentacinque chili di zucchero (raffinato) all’anno, e l’adolescente medio ne consuma quasi un chilo e mezzo la settimana. Eppure il 75 per cento di questo consumo non dipende dalla volontà dell’individuo. Solo una piccola parte viene effettivamente dalla zuccheriera. I fatti mostrano che mi si compra in quantità inferiore, eppure il mio consumo è in aumento. Quindi preparare il menu facendo completamente a meno di me sarebbe molto difficile, benché non impossibile.
Forse la maggioranza mi riconosce solo come appaio nella zuccheriera: bianco e raffinato. In questa forma sono chiamato saccarosio, puro al 99,9 per cento circa e venduto sotto forma di zucchero granulato o in polvere. Non vi fermate però quando leggete la parola “zucchero” o “saccarosio” sulle etichette dei prodotti. Altri nomi con cui vengo chiamato sono fruttosio (contenuto nella frutta), lattosio (nel latte), maltosio (zucchero del malto); glucosio, glucosio cristallino, destrosio e zucchero d’acero. Negli Stati Uniti è vietata la vendita dello zucchero greggio a meno che non siano eliminate impurità come polvere, parti di insetti, muffe, batteri e altre sostanze. Anche se di colore simile, non è da confondere con lo zucchero scuro, che in genere è solo zucchero bianco raffinato e colorato con melassa.
Ai calcolati trentacinque chili di zucchero raffinato a testa consumati nel 1982 si aggiungano altri venti chili di dolcificanti ricavati dal frumento (che godono sempre più il favore dell’industria conserviera a motivo del costo inferiore) e contenuti nei cibi preparati, e il consumo pro capite di zucchero raggiunge altezze ancor più vertiginose.
Se avete di me anche solo una conoscenza elementare saprete che anch’io, come gli amidi, sono un carboidrato, e i carboidrati forniscono all’organismo energia, calore e di conseguenza il combustibile di cui il corpo ha bisogno per muoversi. Quando si consumano più carboidrati di quelli che il corpo può smaltire, l’eccesso si trasforma in grassi.
Dato che il corpo ha bisogno di combustibile e di energia, che male c’è dunque a consumare zucchero? Il problema è che, a differenza di altre fonti di carboidrati, non contengo né proteine, né minerali, né vitamine: nessuna sostanza nutritiva ma solo calorie. E di queste ne ho in abbondanza: sulle sessanta ogni quattordici grammi, vale a dire quanto un cucchiaio. Gli esperti di nutrizione mi definiscono “calorie vuote”. D’altro canto, consumando altri alimenti pure ricchi di carboidrati, come cereali interi, legumi, verdure e frutta, non solo vi procurate delle buone fonti di energia, ma anche molte sostanze nutritive.
La rivista Consumer Reports del marzo 1978 mi mise veramente a terra. Devo riconoscere però quello che dice: “In sostanza non esiste assolutamente nessun bisogno dietetico di zucchero che non si possa soddisfare con altri cibi più nutrienti, come frutta e verdura. Lo zucchero non è necessario neppure come fonte rapida di energia, ad esempio per una mattinata di tennis, sci, o qualcosa del genere”. Il combustibile di cui il vostro corpo ha già una riserva vi darà l’energia necessaria.
Ciò che aggrava il danno è che quando mi consumate in dosi così concentrate prima di un pasto, diciamo mangiando dolci o torte, e magari per mandarli giù ci bevete sopra una lattina di coca cola (quelle da 33 cl contengono circa nove cucchiai di zucchero), queste calorie saziano il vostro appetito, e quando è ora di mangiare, il cibo sano è rifiutato. Ingrassate, ma in effetti vi manca il vero nutrimento. Vi accorgete di ingrassare, ma non sapete di essere malnutriti.
Benché io sia accusato di molte brutte cose, tante delle quali sono discutibili, ce n’è una su cui tutti gli esperti sembrano essere d’accordo: provoco la carie dentaria, particolarmente nei bambini. Anche l’Associazione per lo zucchero, che si interessa di promuovere un mio maggior uso, è d’accordo su questo punto. Il problema, secondo gli odontoiatri, è che sotto forma di zucchero sono usato dai batteri normalmente presenti nella bocca per creare una densa sostanza gelatinosa che si attacca tenacemente ai denti. Essa accelera l’accumulo della placca batterica, che, insieme ad altri acidi, attacca i denti e li rende vulnerabili alla carie.
Gli esperti, però, dicono che non è tanto la quantità di zucchero consumato a determinare il numero delle carie, ma sotto quale forma lo zucchero è consumato. Se, per esempio, mangiate dolciumi contenenti il 10 per cento di zucchero potete fare più danno ai denti che bevendo una bibita contenente il 25 per cento di zucchero. La ragione è ovvia: il dolce si attacca ai denti, che quindi rimangono esposti più a lungo, non così però lo zucchero della bibita. Ma, se vi piacciono le bibite, prima di tirare un sospiro di sollievo dovete sapere una cosa: gli scienziati riferiscono che parecchie bibite al giorno potrebbero fare più danno ai denti che non mangiare un dolce la settimana. Anche le bevande a base di cola e molte altre bibite contengono spesso acidi nocivi per i denti.
Bambini, questo sottolinea un altro fatto che forse i vostri genitori hanno cercato di farvi capire: Lavatevi i denti diligentemente e regolarmente, specie dopo aver mangiato dolci. Più particolarmente dopo avere mangiato cibi molto zuccherini prima di andare a letto. Più a lungo rimango sui denti, maggiore è la probabilità che si formino delle carie.
C’è una speranza, però, anche se non necessariamente un antidoto: Secondo recenti dati preliminari, resi pubblici dal New York Times del 16 dicembre 1980, il formaggio cheddar potrebbe effettivamente prevenire la carie. “Riteniamo sia un’osservazione valida che dovremo investigare ulteriormente, ma finora è solo in fase preliminare”, ha detto il dottor William H. Bowen, capo di una sezione dell’Istituto americano di Ricerche Odontoiatriche che si occupa della prevenzione della carie e di ricerche nel campo.
Scienziati americani, continuando le ricerche di un collega inglese, che aveva scoperto che il formaggio cheddar aveva l’effetto di rallentare la carie nell’uomo, han fatto esperimenti su ratti di laboratorio con un cheddar semilavorato. I risultati sono stati gli stessi, ha riferito il dottor Bowen, “purché gli animali consumassero il formaggio subito dopo avere mangiato lo zucchero, che come è noto contribuisce alla carie”. “Perché il formaggio”, continua The New York Times, “abbia tale effetto non si sa”.
Cattive notizie da ogni parte
Dato che racconto la mia storia, devo raccontare le cose come stanno, anche se mi mettono in una pessima luce. Ma ecco altre cattive notizie per quelli che mi amano. Questa notizia incrimina anche il mio peggior rivale, il sale. Sembra un fatto estesamente riconosciuto che il sale, o una quantità eccessiva d’esso, contribuisce in notevole misura all’alta pressione sanguigna. Un recente rapporto indica che il pericolo potrebbe essere accresciuto combinando zucchero e sale.
Secondo ricercatori della Facoltà di Medicina dell’Università Statale della Louisiana, alcune scimmie ragno furono messe a tre diverse diete. La prima era una dieta normale stabilita per scimmie da laboratorio. La seconda era la stessa dieta, ma con l’aggiunta di altro sale. La terza era come la seconda, con la stessa quantità di sale, ma con l’aggiunta di altro zucchero. La rivista Science Digest dell’ottobre 1980, contenente questo rapporto, riferisce i risultati:
“Tutti gli animali furono attentamente esaminati in un ‘periodo base’ di tre settimane, quindi divisi in tre gruppi; ciascun gruppo fu sottoposto a uno dei tre regimi sperimentali per otto settimane. Com’era previsto, la pressione sanguigna di quegli animali alla cui dieta era stato aggiunto altro sale aumentò. Ma come ha riferito l’équipe di ricercatori nell’American Journal of Clinical Nutrition, le scimmie a cui era stato dato sale e zucchero extra avevano avuto un aumento di pressione notevolmente maggiore”.
Oltre ad alcune delle cose che ho menzionato qui, su cui sono d’accordo, sono accusato d’essere la causa di molte altre malattie, cosa però che non è sostanzialmente provata. Le controversie continueranno senz’altro finché non siano infine appianate in un modo o nell’altro.
Nel frattempo dovete fare un uso moderato ed equilibrato di alimenti e di zucchero. L’eccesso di qualsiasi cosa può farvi ammalare e causarvi innumerevoli problemi. Potete includermi nella vostra dieta quotidiana, purché siate equilibrati.
Ricordate inoltre che il grande Dio, Geova, che mi ha creato, condusse gli israeliti nella Terra Promessa, un paese dove scorreva “latte e miele”, il quale è un tipo di zucchero. Questo mi dice che non posso essere del tutto cattivo. E quando tutti quelli che ne saranno degni sederanno ciascuno “sotto la sua vite e sotto il suo fico” nella terra paradisiaca, ebbene, io ci sarò, in quelle dolci uve e in quei fichi maturi! — Michea 4:4.
[Testo in evidenza a pagina 9]
Sono di nuovo al centro di grandi controversie. Alcuni dicono che dovrei essere bandito dalla faccia della terra per sempre. Altri dicono che sono raffinato, dolce e necessario, e non quel malvagio che mi si accusa d’essere
[Testo in evidenza a pagina 10]
Sono il primo a dire che il più delle volte si abusa di me
[Testo in evidenza a pagina 10]
Le ditte produttrici di generi alimentari, per mascherare l’alta percentuale di zucchero contenuta nei cibi, mi chiamano con molti nomi diversi
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Le chiese e il nazionalsocialismoSvegliatevi! 1983 | 22 marzo
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Le chiese e il nazionalsocialismo
Nell’Enciclopedia del Novecento (a cura dell’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, volume IV, pagina 519), alla voce “Nazionalsocialismo”, al sottotitolo “Politica culturale e religiosa”, si rileva: “Per quanto Hitler facesse del tutto per evitare un conflitto aperto con le chiese, gli ostacoli frapposti in misura crescente al movimento giovanile cattolico provocarono tensioni sempre più acute. Ma poiché l’episcopato, dopo la stipulazione di un concordato insolitamente accondiscendente, esitava a mettersi apertamente contro il regime e poiché il cardinale Segretario di Stato Pacelli (poi papa Pio XII) guardava di buon occhio la funzione antibolscevica del Terzo Reich, . . . le tensioni non esplosero mai in rottura formale. . . . Nondimeno i rapporti fra il regime e le chiese, che evitarono assolutamente di proferir verbo sulla persecuzione degli Ebrei e dei testimoni di Geova, furono caratterizzati da uno stato di sospensione, giacché Hitler, in questo contro la tendenza di Bormann, vietò azioni direttamente antiecclesiastiche prima che avesse fine la guerra . . . A onta delle continue diffamazioni e vessazioni poliziesche, la maggioranza degli ecclesiastici delle due confessioni [luterana e cattolica] (di orientamento nazional-conservatore) tenne un comportamento esteriormente leale nei confronti del regime; solo singoli elementi presero parte attiva al movimento di resistenza del 20 luglio 1944. In politica estera l’atteggiamento conciliante del Vaticano fu di valido sostegno al regime, soprattutto nella fase di conquista del potere”.
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