Una gita in Sicilia
Dal corrispondente di “Svegliatevi!” in Italia
AVETE mai pensato di trascorrere qualche giorno in Sicilia? L’epoca migliore sarebbe a primavera inoltrata, quando la vegetazione è al suo massimo splendore di varietà, colori e profumi. Proprio per la feracità del suo terreno l’isola ricevette dai greci l’appellativo di Sikelìa (Sicilia), terra dei falciatori, oltre al nome di Trinacria (da treis akra, tre promontori) per la sua caratteristica forma triangolare.
Avete deciso di viaggiare in macchina? Allora verremo a prendervi al porto di Messina dove attraccano le navi traghetto che, in poco più di venti minuti, attraversano lo stretto che separa il continente dalla Sicilia. Mentre aspettate di imbarcarvi potete già godere lo spettacolo della costa siciliana, con i suoi contorni ondulati, i vividi colori, e la bianca cima dell’Etna.
In certe giornate calde e terse, per un effetto ottico di rifrazione, da Reggio Calabria si può vedere specchiata sul mare la costa della Sicilia, con case e alberi, barche e persino uomini, così vicini che sembra di poterli toccare. È il fenomeno della “fata morgana”. Secondo un’antica leggenda, un re barbaro, dopo aver conquistato l’intera penisola, si trovò di fronte il mare che ne arrestò l’avanzata. La terra al di là dello stretto gli appariva incredibilmente bella, ma non aveva navi per raggiungerla. All’improvviso comparve una donna bellissima che gli disse: “Vuoi quell’isola? Ecco, te la dono; è a due passi da te”. E infatti, fissando l’acqua, il re vide, nitidi come se fossero stati a pochi metri da lui, aranceti, oliveti, sentieri di campagna e un porto fitto di barche. Con un urlo di trionfo si gettò in mare, pensando di poter raggiungere con poche bracciate la sponda opposta ma, vittima dell’inganno, annegò miseramente.
In realtà la Sicilia è sempre stata la preda ambita di tutti i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo, e di altri più lontani, come i normanni, i quali si sono avvicendati nella sua storia e hanno lasciato le loro tracce nell’architettura e nelle usanze.
Ma è ora di cominciare il nostro viaggio nella parte orientale dell’isola. Ci lasciamo alle spalle Messina, città moderna, quasi interamente ricostruita con criteri antisismici dopo il terremoto che la devastò nel 1908. In meno di un’ora giungiamo a Taormina. Avrete probabilmente sentito parlare di questa celebre stazione balneare, ma vedendola per la prima volta avrete la sensazione d’essere letteralmente circondati da tutti i colori e i profumi che la natura può offrire. Poiché è disposta a terrazze sul fianco di un promontorio, ogni stradina, ogni scala, ogni balconata, presenta un panorama nuovo.
Non manchiamo di visitare il teatro greco-romano. È evidente che gli antichi apprezzavano la bellezza quanto noi, poiché le rovine di questo teatro si trovano nel punto panoramico più bello. Lo scenario per le rappresentazioni è lì, naturale, e cambia secondo le stagioni e le ore del giorno. Non c’è da stupirsi che questo antico teatro sia usato ogni anno per spettacoli che attirano migliaia di turisti da tutto il mondo.
Un temibile gigante
Quando riprendiamo il viaggio, il paesaggio è quasi costantemente dominato dall’imponente mole dell’Etna, il più alto vulcano attivo d’Europa (3340 m). Si scorgono le ultime chiazze di neve che imbiancano ancora la cima, e dal cratere centrale esce un pennacchio di fumo, che di notte si trasforma in lingue di fuoco. Il terreno e le rocce d’un tratto si fanno d’un marrone rossiccio, anche neri. Sono le vecchie colate laviche di questo temibile gigante, scese per decine di chilometri allargandone le pendici all’interno e sul mare.
Pensavate di vedere una distesa desolata? Invece no, questa è la parte più fertile e verdeggiante della Sicilia. Mentre saliamo le pendici dell’Etna incontriamo agrumeti, vigneti, boschi di castagni e, quando la vegetazione si fa più rada a motivo dell’altitudine, una profusione di cespugli di ginestre.
Il cratere centrale non è lontano, ma si può raggiungere solo con la funivia che porta fino all’osservatorio, alla base del cratere. Sia la funivia che l’osservatorio subirono danni durante una delle ultime grandi eruzioni, quella dell’aprile 1971 (la 136a, almeno da che si è cominciato a contarle). Avvenne dopo alcuni anni di calma apparente, durante i quali solo fumo e vapori si levavano dal cono centrale. All’improvviso un possente boato scosse le viscere della terra e la potenza del gigante si scatenò. L’enorme pressione accumulatasi aprì nuovi crateri sui fianchi della montagna e la lava cominciò a scorrere distruggendo ogni cosa al suo passaggio. Da vicino era uno spettacolo impressionante assistere all’avanzata lenta, ma inarrestabile, di quel torrente di fuoco liquido.
Eppure non c’è paesaggio dall’apparenza più pacifica di questo. Il panorama che si gode da quassù si estende a perdita d’occhio. In mattinate particolarmente limpide, dalla vetta del vulcano, si può godere l’incomparabile spettacolo dell’ombra del cono principale che si proietta fino a raggiungere la città di Enna, verso il centro dell’isola.
Antiche città greche
Vi interessa visitare i resti di antiche civiltà? Nelle città di Siracusa e Agrigento si possono ammirare le strutture architettoniche di antichi templi dorici dell’epoca della dominazione greca, nella loro splendida cornice naturale. Ma, specialmente a chi studia la Bibbia, non sfuggirà un particolare: alcuni di questi templi pagani sono stati o sono tuttora usati come chiese. La “Valle dei templi”, prospiciente il mare di Agrigento, è un vero paradiso dell’archeologo. Il tempio dorico “della Concordia”, sull’acropoli, è il meglio conservato; nel suo interno sono ancora visibili i rimaneggiamenti di epoca bizantina, quando il tempio pagano fu trasformato in chiesa cattolica.
Ma eccoci a Siracusa, cittadina antichissima fondata nel 734 a.E.V., ancor prima di Roma. È costruita parte sulla terraferma e parte sull’isoletta di Ortigia (dal greco ortyx-ygos, quaglia), dove si trova il nucleo più antico della città. I greci vi adoravano Artemide (Diana), la dea della caccia il cui simbolo erano appunto le quaglie, e Minerva, la dea della guerra. A quest’ultima era dedicato un tempio situato al centro dell’isoletta. Desiderate visitarlo? Ebbene, bisogna che entriamo nel duomo. Anche in questo caso la trasformazione è avvenuta in epoca bizantina; ma la facciata, come il resto della piazza, è interamente barocca. All’interno, nelle navate, si vede ancora quasi intatta la struttura del tempio pagano, con le sue poderose colonne doriche.
Ora torniamo sulla terraferma, nella parte della città chiamata in greco, e tuttora, Neapolis (città nuova), dove si trova una vasta zona archeologica che include il teatro greco, l’anfiteatro romano e le cosiddette “latomìe”.
Ricordate che Siracusa è una delle città menzionate nella Bibbia? Fu infatti una tappa del viaggio che l’apostolo Paolo, prigioniero, fece da Gerusalemme a Roma al tempo dell’imperatore Nerone, nel 59 E.V. Vi sostò tre giorni. — Atti 28:12, 13.
I cerauli e il sabburco
Il primo termine, derivato da un’antica parola greca che significa “sonatore di corno o flauto”, designa oggi gli incantatori di serpenti. A Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, i “cerauli” sono protagonisti della festa in onore di San Paolo. La tradizione cattolica insegna che i cerauli siano uomini i quali, nati la notte del 29 giugno, ricorrenza della festa del “santo”, sarebbero immuni dal morso dei serpenti. Il giorno della festa i cerauli procedono davanti alla statua del “santo” con grossi serpenti attorcigliati attorno alla vita, quindi li depongono ai piedi dell’altare dove, lasciati liberi, questi si attorcigliano, strisciano e si ripiegano in modo impressionante. La tradizione religiosa locale fa derivare quest’usanza dall’episodio narrato nella Bibbia in Atti 28:1-6, accaduto nell’isola di Malta all’apostolo Paolo che, morso da una vipera, rimase illeso. Ma l’origine di questa usanza è chiaramente pagana.
Pure di origine pagana è la consuetudine seguita nel periodo pasquale in quasi tutte le chiese della Sicilia, quella di esporre il “sabburco”. Si tratta di piatti dove qualche giorno prima vengono seminati, su uno strato di materiale assorbente imbevuto d’acqua, grano, ceci, fagioli e lenticchie mischiati insieme, che presto germogliano. Questi comuni piatti da cucina, contenenti i semi che hanno formato una fitta vegetazione di germogli, chiamati “sabburco”, vengono portati dai devoti nelle chiese durante il cosiddetto “giovedì santo”, per esser posti accanto a una rappresentazione del sepolcro di Cristo morto. È interessante che nell’antica Grecia il dio che rappresentava la morte e la risurrezione era Adone, e nel grano e nelle lenticchie che in modo identico i greci piantavano nei piatti, essi vedevano una sorta d’incantesimo destinato a favorire la fertilità.
Le “latomìe”
Non vogliamo lasciare Siracusa senza aver visitato le “latomie”. Con questo termine venivano chiamate nell’antichità le cave di pietra, e quelle di Siracusa sono particolarmente note. Si dice venissero usate dai tiranni greci per mettervi ai lavori forzati delinquenti comuni, prigionieri di guerra e avversari politici. La più famosa è la latomia del Paradiso, e il nome è veramente appropriato perché l’intera latomia è occupata infatti da lussureggianti giardini dove palme, aranci, cipressi, magnolie e fiori d’ogni genere crescono al riparo dai venti e alimentati dalle acque che qui si raccolgono facilmente. Vi si trovano pure mangrovie secolari, le cui radici, che pendono dai rami, si conficcano nel terreno, formando una corona di colonne lignee attorno al fusto principale.
Qui si trova il famoso “Orecchio di Dionisio”. Si tratta di una gigantesca cavità, a forma di orecchio d’asino, alta 23 metri e profonda 65, dotata di straordinarie proprietà acustiche di risonanza. Ecco infatti la guida strappare un foglio di carta, bisbigliare e battere le mani. Questi lievi rumori tornano a noi ingigantiti, amplificati centinaia di volte, fino a rimbombare in tutta la grotta. Non si sa se sia storia o leggenda, ma si dice che Dionisio I, tiranno di Siracusa (432-367 a.E.V.), se ne servisse per origliare, da un’apertura del soffitto, i discorsi dei suoi prigionieri. Una cosa tuttavia appare certa: poiché la parte superiore della grotta ha un’apertura che comunica col soprastante teatro greco, l’“Orecchio di Dionisio” poteva benissimo servire come cassa armonica per il teatro stesso.
Il carretto siciliano
Peccato che siamo alla fine della nostra breve escursione. Ma non vogliamo lasciarvi partire senza offrirvi un piccolo souvenir, che rappresenta uno dei prodotti più caratteristici dell’artigianato locale: il carretto siciliano. Sulla sua origine non tutti sono concordi. C’è chi lo fa risalire alla remota antichità, chi a tempi più recenti. In ogni caso la sua fabbricazione è un’opera molto complessa, il frutto del lavoro di più di un artigiano.
Il “carradore” fabbrica le ruote, le stanghe, i pioli, ecc., usando sempre lo stesso materiale: legno di noce per le ruote, faggio per le stanghe, frassino per i pioli. L’intagliatore con i suoi scalpelli provvede alle decorazioni e il pittore profonde in abbondanza colori smaglianti per dare risalto agli incavi delle sculture. Le fiancate del carretto sono decorate con scene generalmente tratte dalle storie dei Vespri siciliani, dei paladini di Carlo Magno, di S. Rosalia, della Bibbia e del melodramma della Cavalleria rusticana. Arabeschi e figure d’ogni genere ornano la cassa e le ruote.
Siete soddisfatti della gita? Speriamo che tornerete; la prossima volta potremo visitare la parte centrale e occidentale dell’isola, perché c’è ancora molto, molto da vedere. La Sicilia è una terra di contrasti, di zone stupende, nel loro genere senza uguali, dove l’antico si fonde col moderno delle colture di un’agricoltura specializzata. È abitata da gente di forti sentimenti, generosa e profondamente religiosa. Nonostante il radicato paganesimo della religione tradizionale, sempre più numerosi sono coloro che accettano le pure e semplici verità della Parola di Dio e affluiscono alle gremite sale di riunione dei testimoni di Geova. Sì, anche in quest’isola molti ‘attribuiscono lode a Geova e dichiarano pure la sua lode’. — Isa. 42:12.