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Gennezaret
(Gennèzaret) [forse liuto, arpa; oppure giardini principeschi].
Piccola pianura di forma più o meno triangolare confinante con la riva NO del Mar di Galilea, che misurava km 2,4 per 4,8 circa. In questa regione Gesù Cristo operò guarigioni miracolose. (Matt. 14:34-36; Mar. 6:53-56) Secondo lo storico ebreo Giuseppe Flavio questa pianura era bella, fertile e ben irrigata, vi crescevano rigogliosi noci, palme e ulivi, e per dieci mesi dell’anno c’erano fichi e uva in abbondanza. — Guerra giudaica, Libro III, cap. X, 8.
“Lago di Gennezaret” era un altro nome del Mar di Galilea. (Luca 5:1) Alcuni studiosi ritengono che Gennezaret sia probabilmente la forma greca dell’antico nome ebraico Cinneret. (Num. 34:11) Altri pensano che questo nome possa essere derivato da due termini ebraici che significano “giardini principeschi”. — Vedi GALILEA, MAR DI.
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Gentilezza
La gentilezza è strettamente legata a umiltà, mansuetudine, mitezza e ragionevolezza. “Umiltà” si riferisce alla valutazione di se stessi, “mansuetudine” all’atteggiamento della persona nei suoi rapporti con Dio e con l’uomo, e “gentilezza” al modo di trattare gli altri. La gentilezza è una maniera o disposizione mite. “Ingentilire” significa temperare, placare o calmare qualsiasi cosa uno faccia, come parlare, agire, ecc.
La gentilezza è l’opposto della durezza o asprezza. La persona gentile non è chiassosa, rumorosa o smodata. Nel testo greco di Westcott e Hort il termine nèpioi (pl. di nèpios) che ricorre in I Tessalonicesi 2:7 è tradotto “gentili” (NM). Altre volte è tradotto “bambini”, come in Matteo 21:16. In altri testi greci in I Tessalonicesi 2:7 ricorre il termine èpios, che ha significato simile a nèpios e dà l’idea di mitezza, affabilità, e può anche essere tradotto “gentile”. (II Tim. 2:24) L’Expository Dictionary of New Testament Words di Vine spiega che il termine “era spesso usato da scrittori greci per descrivere il comportamento proprio di una nutrice nei confronti di bambini difficili o di un insegnante con scolari refrattari, o di genitori verso i propri figli”.
NON È DEBOLEZZA
La gentilezza non è segno di debolezza. Ci vuole forza di carattere per essere gentili con gli altri, e per placare o per non offendere i loro sentimenti, specie quando si è provocati. Davide, uomo di guerra, a motivo del suo amore paterno ordinò a Gioab di trattare gentilmente il suo figlio ribelle Absalom. (II Sam. 18:5, dove ricorre il termine ebraico ’at, che indica un gesto gentile o conciliante). L’apostolo Paolo descrive il comportamento suo e dei suoi compagni nel servire i nuovi convertiti di Tessalonica dicendo: “Divenimmo gentili [gr. nèpioi, lett. “bambini”] in mezzo a voi, come quando una madre che alleva i propri figli ne ha tenera cura”. Questo a motivo del vero affetto, e della preoccupazione di non nuocere alla loro crescita spirituale. (I Tess. 2:7, 8) Paolo non era un debole, com’è dimostrato dalla sua capacità di parlare con molto vigore quando ce n’era bisogno, come quando scrisse la prima e la seconda lettera canonica alla congregazione cristiana di Corinto. Inoltre fece notare che la gentilezza è un requisito del servitore di Dio, specie di chi ha una posizione di responsabilità come sorvegliante. — II Tim. 2:24.
FORZA UNIFICATRICE
Com’è piacevole e come contribuisce alla pace chi parla e agisce con gentilezza! Tale persona è avvicinabile, non scostante, e i suoi modi tendono a edificare spiritualmente altri. Durezza, asprezza, chiasso e volgarità dividono e allontanano. La gentilezza invece attira e unisce. Di Geova è detto che raduna i suoi agnelli e li porta in seno (cioè fra le ampie pieghe della parte superiore dell’abito, dove i pastori a volte portavano gli agnelli). — Isa. 40:11.
FALSA GENTILEZZA
Tono di voce e maniere garbate, il parlare ad esempio con voce melliflua, non sempre dimostrano vera gentilezza. Questa è una qualità che per essere davvero sincera deve venire dal cuore, come sono sinceri nella loro gentilezza i bambini (dal significato comune del termine nèpioi). Nell’antichità il servitore di Dio Giobbe, mentre soffriva per mano di Satana in una prova della sua integrità a Dio, venne criticato duramente da tre compagni. Essi lo accusavano di aver peccato in segreto, di essere malvagio e ostinato, e insinuavano che fosse anche apostata e che i suoi figli fossero morti per volere di Dio a motivo della loro malvagità. Eppure uno dei tre, Elifaz, disse a Giobbe: “Non sono le consolazioni di Dio abbastanza per te, o una parola a te pronunciata gentilmente?” (Giob. 15:11) Quindi almeno parte delle loro parole forse furono pronunciate in tono dolce, ma non erano veramente gentili, perché il contenuto era duro.
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Vedi NAZIONI.
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Vedi FISSATI TEMPI DELLE NAZIONI.
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Geova
(Gèova).
Nome proprio di Dio. (Isa. 42:8; 54:5) Anche se nelle Scritture gli sono attribuiti titoli descrittivi come “Dio”, “Signore”, “Creatore”, “Padre”, “l’Onnipotente”, “l’Altissimo” e altri, la sua personalità e i suoi attributi — chi e che cosa è — sono pienamente espressi e riassunti solo da questo nome personale. — Sal. 83:18.
CORRETTA PRONUNCIA DEL NOME DIVINO
“Geova” è la più nota forma italiana del nome divino, anche se in prevalenza gli ebraicisti preferiscono la forma “Yahweh” o “Jahweh”. Nei manoscritti ebraici più antichi compare il nome scritto con quattro consonanti comunemente chiamato il Tetragramma (dal greco tètra, che significa “quattro”, e gràmma, “lettera”). Queste quattro lettere (scritte da destra a sinistra) sono יהוה e si possono traslitterare con le lettere YHWH (o, secondo altri, YHVH).
Le consonanti ebraiche del nome sono dunque note. Il problema è quali vocali unire a tali consonanti. I segni vocalici sono stati introdotti nell’ebraico solo nella seconda metà del I millennio E.V. Tuttavia i segni vocalici che compaiono nei manoscritti ebraici da quell’epoca in poi non permettono di determinare quali vocali dovrebbero comparire nel nome divino, questo a motivo di una superstizione religiosa che risaliva a secoli prima.
Una superstizione nasconde il nome
A un certo punto sorse fra gli ebrei l’idea superstiziosa che fosse sbagliato anche solo pronunciare il nome divino (rappresentato dal Tetragramma). Non si sa con precisione quale ragione fosse adotta in origine per non usare più il nome. Secondo alcuni veniva insegnato che il nome era troppo sacro per essere pronunciato da labbra imperfette. Eppure nelle Scritture Ebraiche stesse non esistono prove che alcuno dei veri servitori di Dio abbia mai avuto qualche esitazione a pronunciarne il nome. Documenti ebraici non biblici, come le cosiddette Lettere di Lachis, rivelano che verso la fine del VII secolo a.E.V. il nome era usato in Palestina nella normale corrispondenza. E i Papiri di Elefantina, documenti di una colonia ebraica dell’Alto Egitto che risalgono al V secolo a.E.V., pure contengono il nome divino, nonostante fossero in gran parte documenti di natura secolare.
Quando si affermò tale superstizione?
Come sono incerte la ragione o le ragioni addotte in origine per smettere di usare il nome divino, così c’è molta incertezza anche circa l’epoca in cui tale idea superstiziosa si sia veramente affermata. Alcuni sostengono che risalga all’esilio in Babilonia (607–537 a.E.V.). Tale teoria si basa però sul presunto minor uso del nome da parte degli ultimi scrittori delle Scritture Ebraiche, opinione che a un più attento esame risulta infondata. Malachia per esempio è uno degli ultimi libri delle Scritture Ebraiche messo per iscritto (nella seconda metà del V secolo a.E.V.) e dà grande risalto al nome divino.
Molte opere di consultazione affermano che il nome smise di essere usato verso il 300 a.E.V. Una prova, si diceva, era l’assenza del Tetragramma (o di una sua traslitterazione) nella Settanta, traduzione greca delle Scritture Ebraiche iniziata verso il 280 a.E.V. È vero che le copie più complete della Settanta note attualmente seguono effettivamente la consuetudine di sostituire al Tetragramma i termini greci Kỳrios (Signore) o Theòs (Dio). Ma tali importanti manoscritti risalgono solo al IV e V secolo E.V. Copie più antiche, benché frammentarie, scoperte di recente dimostrano che anteriori copie della Settanta contenevano il nome divino.
I frammenti di un rotolo papiraceo, catalogati come Papiro Fouad 266, della seconda parte del libro di Deuteronomio, contengono il Tetragramma, scritto in caratteri ebraici, ogni volta che ricorre nel testo ebraico tradotto. Questo papiro risale secondo gli studiosi al II o I secolo a.E.V., è cioè di quattro o cinque secoli più antico dei manoscritti già menzionati.
Quindi, almeno in forma scritta, non c’è alcuna valida prova che il nome divino fosse scomparso o caduto in disuso prima dell’Era Volgare. Nel I secolo E.V. compaiono i primi segni di un atteggiamento superstizioso nei confronti del nome. Giuseppe Flavio, storico ebreo di famiglia sacerdotale, nel riferire la rivelazione di Dio a Mosè presso il rovo ardente, dice: “Allora Dio gli dichiarò il suo santo nome, che non era mai stato prima rivelato agli uomini; di questo non mi è lecito dire di più”. (Antichità giudaiche, Libro II, cap. XII, 4) Le parole di Giuseppe però, oltre a essere inesatte circa la conoscenza del nome divino prima di Mosè, sono vaghe e non indicano chiaramente quale fosse nel I secolo l’atteggiamento generale in quanto a pronunciare o usare il nome divino.
La Mishnàh ebraica, collezione di tradizioni e insegnamenti rabbinici, è un po’ più esplicita. La sua compilazione è attribuita a Rabbi Yehuda ha-Nasi (Giuda il Patriarca), vissuto nel II e III secolo E.V. Parte del contenuto della Mishnàh si riferisce chiaramente a condizioni precedenti alla distruzione di Gerusalemme e del tempio nel 70 E.V. Qui troviamo alcune tradizioni relative al pronunciare il nome divino.
In relazione all’annuale giorno di espiazione, Yoma, 6, 2, dichiara: “E quando i sacerdoti e il popolo che erano nel Corrile del Tempio udivano il Nome stesso pronunciato dalla bocca del Sommo Sacerdote, solevano inginocchiarsi e inchinarsi e prostrarsi e dire: ‘Benedetto sia il nome della gloria del suo regno per i secoli dei secoli!’” Delle quotidiane benedizioni sacerdotali, Sotah, 7, 6, dice: “. . . nel Tempio pronunciavano il Nome com’era scritto, ma nelle province usavano un termine sostitutivo”. Sanhedrin, 7, 5, dichiara che un bestemmiatore non era colpevole ‘a meno che non pronunciasse il Nome’, e che in un processo relativo a un’accusa di bestemmia veniva usato un nome sostitutivo finché non si erano ascoltate tutte le testimonianze; allora veniva chiesto in privato al testimone principale di ‘dire esattamente quello che aveva sentito’, usando si presume il nome divino. Sanhedrin, 10, 1, nell’elencare coloro “che non hanno parte nel mondo avvenire”, precisa: “Abba Saul dice: Anche chi pronuncia il Nome con le sue proprie lettere”. Ma nonostante tali vedute negative, nella prima parte della Mishnàh si trova anche l’ingiunzione positiva che “un uomo dovrebbe salutare il suo simile con il Nome [di Dio]”, e viene quindi citato l’esempio di Boaz (Rut 2:4). — Berakhòth, 9, 5.
Prese per ciò che valgono, tali idee tradizionali possono rivelare la tendenza superstiziosa a evitare l’uso del nome divino qualche tempo prima della distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 E.V. Ma anche in tal caso, viene esplicitamente dichiarato che erano proprio i sacerdoti a usare un nome sostitutivo al posto del nome divino, e questo solo nelle province. Inoltre il valore storico delle tradizioni contenute nella Mishnàh è dubbio.
Non c’è dunque alcuna valida ragione per attribuire a un tempo precedente al I e II secolo E.V. l’affermarsi dell’idea superstiziosa che vietava di pronunciare il nome divino. Ma a un certo punto, nel leggere le Scritture Ebraiche nella lingua originale, il lettore ebreo, invece di pronunciare il nome divino rappresentato dal Tetragramma, cominciò a sostituirlo con ’Adhonày (Signore) o ’Elohìm (Dio). Questo è evidente dal fatto che, quando nella seconda metà del I millennio E.V. furono introdotti i segni vocalici, i copisti ebrei inserirono nel Tetragramma i segni vocalici di ’Adhonày o di ’Elohìm, evidentemente per avvertire il lettore di pronunciare quelle parole invece del nome divino. Se usava copie più tarde della Settanta, il lettore avrebbe trovato al posto del Tetragramma i termini Kỳrios e ho Theòs.
Le traduzioni in altre lingue, come la Vulgata latina, seguirono l’esempio di tali copie più tarde della Settanta. La versione italiana di Giovanni Diodati del 1607, pur essendo tradotta dai testi originali, non contiene il nome divino. E neanche la versione cattolica di Antonio Martini del 1778 fatta dichiaratamente “secondo la Volgata”.
La pronuncia “Geova” e “Yahweh”
Unendo alle quattro consonanti del Tetragramma i segni vocalici di ’Adhonày e ’Elohìm si ebbe la pronuncia Yehowàh e Yehowìh, la prima delle quali ha dato origine alla forma latinizzata “Jehova” (Geova). Il primo uso documentato di questa forma risale al XIII secolo E.V. Raimondo Martini, un frate domenicano spagnolo, la usò nel 1270 nel suo libro Pugio Fidei.
Gli ebraicisti in genere preferiscono “Yahweh” ritenendola la pronuncia più probabile. Rilevano che la forma abbreviata del nome è Yah (Jah nella forma latinizzata), che ricorre nel Salmo 89:8 e nell’espressione Hallu–Yàh (che significa “Lodate Iah!”). (Sal. 104:35; 150:1, 6) Anche le forme Yehòh, Yoh, Yah e Yàhu che si trovano nella grafia ebraica dei nomi Giosafat, Ieoiada, Sefatia e altri, possono tutte essere derivate da Yahweh. Le traslitterazioni greche del nome ad opera di scrittori cristiani primitivi seguono una tendenza simile con la grafia Iabè e Iaouè. Ma poiché i dotti non sono ancora d’accordo sull’argomento, alcuni preferiscono altre pronunce, come Iaveh, Jahve, Jahweh.
Dal momento che finora non si conosce con certezza la pronuncia esatta, non sembra che ci sia alcuna ragione per abbandonare la nota forma italiana “Geova” a favore di qualche altra forma suggerita. Se si facesse tale cambiamento, per essere coerenti si dovrebbe anche cambiare l’ortografia e la pronuncia di moltissimi altri nomi che ricorrono nelle Scritture: Geremia dovrebbe diventare Yirmeyàh, Isaia diventerebbe Yesha‘yàhu, e Gesù sarebbe Yehohshùa‘ (in ebraico) o Iesoùs (in greco). Lo scopo delle parole è quello di rappresentare delle idee; in italiano il nome “Geova” identifica il vero Dio, rende oggi quest’idea meglio di qualunque altro termine.
IMPORTANZA DEL NOME
Molti moderni studiosi e traduttori della Bibbia preferiscono seguire la tradizione di eliminare il nome proprio di Dio. Non solo sostengono che l’incerta pronuncia giustifichi tale linea di condotta, ma affermano anche che la supremazia e unicità del vero Dio rendono superfluo che abbia un nome particolare. Tale opinione è simile a quella di Filone, filosofo ebreo di Alessandria d’Egitto, che ebbe una certa notorietà nel I secolo E.V. Egli insegnava che Dio doveva rimanere innominabile essendo indefinibile e incomprensibile. Idee del genere non hanno alcun sostegno nelle Scritture ispirate, né in quelle precristiane né nelle Scritture Greche Cristiane.
La frequenza stessa con cui il nome ricorre attesta l’importanza che ha per l’autore della Bibbia, essendo il Suo nome. Nel solo libro dei Salmi ricorre 749 volte. Nelle Scritture il nome ricorre molto più spesso di qualsiasi titolo che gli è attribuito, come Signore o Dio.
Complessivamente il nome Geova ricorre 6.973 volte nella Traduzione del Nuovo Mondo delle Scritture Ebraiche. Questo numero include le 134 volte in cui in quasi tutti i testi masoretici (133 in quello di Kittel) i soferim hanno sostituito il Tetragramma con ’Adhonày e le otto volte in cui l’hanno sostituito con ’Elohìm. Include anche le due volte (Isa. 34:16; Zacc. 6:8) in cui, secondo le note in calce di Kittel, la yohdh (י) finale del termine ebraico starebbe per “Geova”. Ma questo non è il caso di Giudici 19:18. Il numero complessivo comprende anche le sei volte in cui il nome ricorre nelle soprascritte dei Salmi, le tre volte in cui il Tetragramma si trova in nomi composti, e tre espressioni della Settanta dove, secondo recenti traduzioni, è giusto che ricorra il nome Geova. — Vedi Deuteronomio 30:16; II Samuele 15:20; II Cronache 3:1, Ga, Mar, NM.
Pure degna di nota è l’importanza data ai nomi stessi nelle Scritture Ebraiche e presso i popoli semiti. Il professor G. T. Manley fa notare: “Uno
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