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BenignitàAusiliario per capire la Bibbia
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ma non indicare necessariamente devozione. (Confronta Atti 27:1, 3; 28:1, 2). La benignità mostrata a un certo uomo della città di Betel era in realtà un compenso per i favori attesi in cambio da lui. (Giud. 1:22-25) In altri casi atti di benignità erano chiesti a coloro che erano stati oggetto di passati favori, forse a motivo della situazione disperata del richiedente. (Gen. 40:12-15) Ma a volte alcuni non saldavano tali debiti di benignità. (Gen. 40:23; Giud. 8:35) Come dice il proverbio, una moltitudine di uomini si proclamano generosi in quanto ad amorevole benignità, ma pochi sono fedeli nel metterla in atto. (Prov. 20:6) Saul e Davide ricordarono entrambi l’amorevole benignità che altri avevano mostrato (I Sam. 15:6, 7; II Sam. 2:5, 6), e sembra che i re d’Israele avessero fama di amorevole benignità (I Re 20:31), forse in paragone dei sovrani pagani. Tuttavia una volta la benignità di Davide venne respinta perché i suoi motivi vennero male interpretati. — II Sam. 10:2-4.
La Legge, dice Paolo, non era fatta per persone giuste, ma per i malvagi, i quali, fra l’altro, mancano di amorevole benignità. (I Tim. 1:9) Il termine greco anòsios, tradotto qui “senza amorevole benignità”, significa anche “sleale”. — II Tim. 3:2.
IMMERITATA BENIGNITÀ
Il termine greco khàris ricorre più di 150 volte nelle Scritture Greche, ed è tradotto in vari modi secondo il contesto. In ogni caso viene rispettata l’idea centrale di khàris: ciò che produce o dà gioia (Filem. 7), è cosa grata (I Piet. 2:19, 20) e avvincente. (Luca 4:22) Per estensione, in alcuni casi si riferisce a un benigno dono (I Cor. 16:3; II Cor. 8:19), o alla benignità nel darlo. (II Cor. 8:4, 6) Altre volte si riferisce al merito, alla gratitudine o riconoscenza che derivano da un atto particolarmente benigno. — Luca 6:32-34; Rom. 6:17; I Cor. 10:30; 15:57; II Cor. 2:14; 8:16; 9:15; I Tim. 1:12; II Tim. 1:3.
R. C. Trench, in Synonyms of the New Testament (1961, ristampa dell’VIII edizione, p. 158), dice che khàris implica “un favore fatto per generosità, senza pretendere o aspettarsi qualcosa in cambio; quindi il vocabolo era destinato ad avere maggior rilievo [negli scritti cristiani], . . . per sottolineare l’intera e assoluta generosità dell’amorevole benignità di Dio verso gli uomini. Infatti Aristotele, nel definire [khàris], pone l’accento proprio su questo punto: che è conferita generosamente, senza aspettare nulla in cambio, ed è motivata unicamente dalla liberalità e generosità del donatore”. J. H. Thayer dice nel suo lessico: “La parola [khàris] dà l’idea di benignità che concede a uno ciò che non ha meritato ... gli scrittori del N. T. usano [khàris] prevalentemente a proposito della benignità con cui Dio concede favori anche agli immeritevoli, accorda ai peccatori il perdono delle loro trasgressioni, e li invita ad accettare la salvezza eterna mediante Cristo”. (A Greek–English Lexicon of the New Testament, p. 666) Khàris ha stretta attinenza con un altro termine greco, khàrisma, del quale William Barclay, in A New Testament Wordbook, p. 29, dice: “Nell’insieme la parola [khàrisma] dà fondamentalmente l’idea di un dono generoso e immeritato, di qualche cosa di non guadagnato e non meritato”.
Quando il termine greco khàris ha questo significato, in riferimento alla benignità accordata a chi non la merita, come è vero di ogni benignità mostrata da Geova, “immeritata benignità” è un ottimo equivalente m italiano. — Atti 15:40; 18:27; I Piet. 4:10; 5:10, 12.
L’operaio si aspetta quello per cui ha lavorato, la sua paga; ha diritto di aspettarsi il salario, qualche cosa che gli è dovuto, e il cui pagamento non è un dono o una speciale benignità immeritata. (Rom. 4:4) Ma per peccatori condannati a morte (e siamo tutti nati tali) essere liberati da tale condanna ed essere dichiarati giusti è davvero benignità del tutto immeritata. (Rom. 3:23, 24; 5:17) Chi obietta che coloro che erano nati sotto il patto della Legge erano doppiamente condannati a morte, perché tale patto dimostrava che erano peccatori, dovrebbe ricordare che una benignità doppiamente immeritata fu dimostrata agli ebrei in quanto la salvezza fu offerta prima a loro. — Rom. 5:20, 21; 1:16.
Una speciale manifestazione della immeritata benignità di Dio verso l’umanità in generale è stata la liberazione dalla condanna mediante il riscatto per mezzo del sangue del suo diletto Figlio, Cristo Gesù. (Efes. 1:7; 2:4-7) Mediante questa immeritata benignità Dio reca salvezza a ogni sorta di uomini (Tito 2:11), cosa che era stata predetta dai profeti. (I Piet. 1:10) Il ragionamento e l’argomento di Paolo è dunque valido: “Ora se è per immeritata benignità, non è più dovuta alle opere; altrimenti, l’immeritata benignità non è più immeritata benignità”. — Rom. 11:6.
Paolo, più di ogni altro scrittore, menziona l’immeritata benignità di Dio, sia nella predicazione orale (Atti 13:43; 20:24, 32), sia oltre novanta volte nelle sue quattordici lettere. Menziona l’immeritata benignità di Dio e di Gesù nell’introduzione di tutte le sue lettere, tranne quella agli ebrei, e ne parla di nuovo alla conclusione di ogni lettera. Altri scrittori biblici similmente vi accennano all’inizio e alla fine dei loro scritti. — I Piet. 1:2; II Piet. 1:2; 3:18; II Giov. 3; Riv. 1:4; 22:21.
Paolo aveva ogni ragione di sottolineare l’immeritata benignità di Geova, poiché era stato “bestemmiatore e persecutore e insolente”. “Tuttavia”, spiega, “mi fu mostrata misericordia, perché ero nell’ignoranza e agivo per mancanza di fede. Ma l’immeritata benignità del nostro Signore abbondò straordinariamente con la fede e l’amore che è in relazione con Cristo Gesù”. (I Tim. 1:13, 14; I Cor. 15:10) Paolo non respinse tale immeritata benignità, come alcuni hanno stoltamente fatto (Giuda 4), ma fu lieto di accettarla con gratitudine ed esortò altri a fare lo stesso ‘per non venir meno al suo scopo’. — Atti 20:24; Gal. 2:21; II Cor. 6:1.
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Berea
(Berèa).
Popolosa città della provincia della Macedonia visitata dall’apostolo Paolo durante il suo secondo viaggio missionario. (Atti 17:10-14) Attualmente chiamata Verria (Veroia), si trovava in una zona fertile ai piedi del monte Vermion circa 80 km a O–SO di Tessalonica, e a una quarantina di km dal Mar Egeo.
Probabilmente verso il 50 E.V. Paolo e Sila giunsero a Berea, essendo stati costretti dalla violenza della folla a partire nottetempo da Tessalonica. A Berea c’era una comunità ebraica e una sinagoga dove i due missionari predicarono. La prontezza dei bereani a prestare ascolto al loro messaggio, e la loro diligenza nell’esaminare le Scritture per cercare una conferma delle cose imparate, meritò la lode che si trova in Atti 17:11. Fra quelle persone ‘di mente nobile’ ci furono alcuni che si convertirono, sia ebrei che greci. L’opera di Paolo fu però interrotta dall’arrivo di fanatici ebrei, venuti da Tessalonica con l’intenzione di provocare altre azioni violente. Egli s’imbarcò per Atene, lasciando Sila e Timoteo a Berea per
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