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La cinquantottesima classe di Galaad si mostra volenterosa e grataSvegliatevi! 1975 | 22 settembre
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Il programma del conferimento dei diplomi diede l’opportunità di riflettere gioiosamente sui precedenti mesi di arduo lavoro e studio. Ma in nessun modo gli studenti considerarono il fatto di diplomarsi da Galaad come l’obiettivo finale. Milton G. Henschel, un direttore della Società Torre di Guardia e membro del corpo direttivo dei testimoni di Geova, lo mise in risalto nel suo discorso agli studenti:
“Il giorno del conferimento dei diplomi è la fine di qualcosa e il principio di qualcosa. La radice latina della parola ‘diplomare’ significa ‘passo per passo’. Venendo a Galaad avete fatto un passo avanti nel servizio di Dio. E ora farete un altro passo avanti nel servizio missionario”.
I venticinque studenti della cinquantottesima classe di Galaad provenivano da quattro diversi paesi e ricevettero assegnazioni in tredici diversi paesi. Henschel concluse il suo discorso dicendo, in riferimento alla loro prontezza a servire come missionari: “Noi . . . proviamo nei vostri riguardi il sentimento che l’apostolo Paolo provò verso i cristiani di Filippi quando scrisse loro: ‘Poiché son fiducioso di questa stessa cosa, che colui che cominciò una buona opera in voi la porterà a compimento sino al giorno di Gesù Cristo’”. — Filip. 1:6.
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Suriname, il paese delle kottomissieSvegliatevi! 1975 | 22 settembre
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Suriname, il paese delle kottomissie
Dal corrispondente di “Svegliatevi!” nel Suriname
LA VARIA popolazione del Suriname comprende Creoli, Indù, Indonesiani, Boscimani, Amerindi, Cinesi, Olandesi e altri. Nella sua città capitale di Paramaribo si possono vedere signore in abiti moderni, ma anche donne indù in sari, donne indonesiane in sarong, Boscimane in toghe dai vivaci colori e altre che indossano il “kottojakki”. Desidero parlarvi di questo vestito.
Trovate strano il suo nome? Ha origine dalla lingua del Suriname, “kotto” significa mantello e “jakki” significa giacca. Naturalmente, “missie” significa signorina o signora. Questa è dunque la ragione per cui la signora che indossa questo tipico abito è chiamata “kottomissie”.
La storia di questo abito risale ai tempi della schiavitù, a più di cento anni or sono. La maggioranza degli schiavi portati dall’Africa andavano in giro quasi nudi, e molte giovani fanciulle erano bellissime. Frequentemente accadeva che i proprietari di schiavi erano attratti dal loro fascino fisico e facevano loro proposte indebite. Si decise dunque di cercar di scoraggiare questo.
Le mogli dei proprietari di schiavi, secondo quanto si narra, si riunirono per discutere la questione. Esse decisero di disegnare un abito che coprisse interamente il corpo delle fanciulle, facendole apparire informi. Si concepì così il “kottojakki”!
Le donne cominciarono col disegnare una grande sottoveste. La legarono con un “kooi”, cioè con un pezzo di panno pieno di paglia, posto sopra i fianchi. Quindi la sottoveste era sollevata così che pendeva dal “kooi” rigonfio, nascondendo in tal modo i fianchi. Il bel “kotto” a colori, o sopravveste, si indossava sopra la sottoveste. E per coprirlo fu disegnato un doppio “jakki” o giacca. Questa era abbastanza lunga da giungere al “kooi” e aveva maniche lunghe per tre quarti. La stoffa era molto inamidata. Con questo abito una fanciulla snella sembrava dunque come una del peso di cento chili!
Un “anjisa”, o copricapo, fu disegnato per metterlo col vestito. Col passar del tempo, le donne cominciarono a legarsi questi fazzoletti da copricapo a colori in modo tale da indicare le loro varie disposizioni, sia d’amore, che di gelosia, ira, ecc.
La moda dell’“anjisa” ebbe altri significati, oltre a indicare la disposizione di chi lo portava. Per mezzo d’essi le fanciulle davano appuntamento ai loro fidanzati e mostravano se li amavano ancora.
L’“anjisa” che si portava indicava anche la posizione o l’occupazione. Per esempio, ce n’era un tipo che indicava le prostitute. Una schiava che aveva cura dei figli del proprietario di schiavi portava uno speciale tipo di “kottojakki” e un “anjisa” con un ampio orlo intorno. In cima a esso ella portava un cappello. Così tutti potevano vedere dal suo vestito che era una speciale fanciulla schiava.
Un copricapo “mek sani édé”, o “fa le cose”, è interessantissimo. Si fa legando insieme tre “anjisa”, con tutti i dodici angoli sporgenti. E per corrispondere a ciò, tre “kottojakki” erano indossati l’uno sull’altro, ciascuno più corto dell’altro così che si vedevano tutt’e tre. Un “anjisa” sciolto era tenuto in ciascuna mano. Questo vestito era per occasioni speciali, come quando una persona influente dall’estero visitava il Suriname.
Le “kottomissie” davano a tale persona il benvenuto, inchinandosi e dicendo alcune parole di benvenuto. Quindi, mentre erano ancora di fronte alla persona, rifacevano i loro passi facendo ondeggiare gli “anjisa” nelle loro mani. Stendevano inoltre a terra gli “anjisa” sciolti così che la persona influente vi camminasse sopra. Questo significava: “Io la onoro tanto che la faccio camminare perfino su ciò che porto sulla mia testa”.
Una più recente moda di legare l’“anjisa” si chiama “oto baka”, che significa respingente di automobile. Questa moda si fa piegando le estremità dell’“anjisa” insieme dietro la testa a forma di un respingente.
Ora solo le donne più anziane si vedono indossare a volte il “kottojakki”, ma senza l’imbottitura di paglia. Più frequentemente portano un semplice “anjisa” legato. Per avvenimenti speciali, comunque, come per il Giorno dell’Emancipazione, che celebra l’abolizione della schiavitù del 1863, molte donne, giovani e vecchie, sfilano per le vie con questo interessante vestito dei tempi passati.
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Un difficile enigmaSvegliatevi! 1975 | 22 settembre
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Un difficile enigma
Dal corrispondente di “Svegliatevi!” in Venezuela
GLI enigmi vi presentano una sfida? Che dire di un enigma che pesi quasi 600 chilogrammi e che abbia alcuni pezzi lunghi più di 2 metri? Sarebbe un ‘enigma mastodontico’, non è vero? Ebbene, si tratta di uno scheletro di balena!
Non molto tempo fa, sull’isola di Margarita, in Venezuela, parlai a un professore che aveva messo insieme e montato uno scheletro di balena. Fu un difficile compito.
Egli sapeva che molti studenti che studiano la vita marina all’Università del Oriente di Margarita avrebbero tratto profitto esaminando l’esemplare montato. Accettò dunque la sfida.
Al tempo che prese la decisione la balena era ancora sulle spiagge dell’isola di Cubagua, dove alcuni umili pescatori avevano detto d’averla vista una decina d’anni prima. Ora si offrirono generosamente di sfidare i mari con le loro piccole imbarcazioni da pesca per fare i numerosi viaggi necessari e portare l’enorme scheletro all’università.
I pescatori portarono il loro carico e lo depositarono con cura al Centro delle Investigazioni Scientifiche. Le ossa non furono messe in nessun ordine speciale. Solo un grande mucchio d’ossa! Ora il professore aveva un bell’enigma da risolvere!
Il lavoro immediato fu quello di pulire le ossa. Il sole e la terra avevano notevolmente contribuito alla decomposizione del corpo. Malgrado ciò, le ossa erano tutt’altro che pulite e bianche.
Così faticarono per quasi due mesi, strofinando in continuazione. Nulla riusciva a staccare il grasso che aderiva ancora alle ossa, non c’era sostanza candeggiante né detersivo che servisse allo scopo. Infine qualcuno ebbe l’idea di provare con un detersivo per forni.
Il professore ci provò e, guarda un po’, funzionò!
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