Il tartufo, una meraviglia nascosta
Dal corrispondente di “Svegliatevi!” in Italia
“VITA da cani!” Questa tipica espressione di uomo scontento era il mio pensiero dominante fino a quattro anni fa. Prima di allora, la mia era davvero una vita da cani. Legato tutto il giorno alla catena, nell’angolo più sudicio del cortile, senza un briciolo di considerazione, abbaiavo solo per orgoglio di razza . . . anzi di specie, al visitatore sconosciuto, senza però riuscire a spaventare neppure le galline. Mangiavo una volta al giorno, quando il padrone non se ne scordava, con l’aggiunta di qualche osso spolpato da rosicchiare nei giorni di festa.
Pensate, ero arrivato al punto di invidiare i miei simili che ai concorsi di bellezza canina sfilano in passerella, profumati ed acconciati, al guinzaglio di slanciate modelle in eleganti abiti da sera.
Ero convinto che più cane di me non si poteva essere; fino a che non compresi che anche un cane può sentirsi realizzato. Questo avvenne quando scoprii il tartufo, la meraviglia nascosta . . . anzi, ad essere sinceri, quando il “tartufaio” scoprì me. Ho un grande debito di gratitudine nei confronti di entrambi e voglio sdebitarmi parlandovi un po’ di loro.
Fu il figlio più giovane del mio vecchio padrone che un giorno si mise in testa di farmi diventare un cane da tartufo. Quando glielo sentii dire mi spaventai, pensando che intendesse farmi fare una brutta fine. Ma, buon per me, la sua intenzione era proprio quella di addestrarmi per un mestiere che pensavo potessero fare solo i cani di razza, tipo lo spinone, il pointer o il fox-terrier. Evidentemente, in mancanza d’altro . . . anche un povero cane da pagliaio come me, nato e cresciuto in un paesino delle Langhe, poteva andare bene. Sono stato fortunato a nascere in questa zona del Piemonte, che vanta le migliori tartufaie d’Italia.
L’addestramento del cane
Ero allora un cucciolo di sette mesi, l’età ideale per essere addestrato. Inizialmente mi fu insegnato a raspare, cioè a servirmi degli arti anteriori per estrarre dal terreno qualche oggetto nascosto sotto terra. Sarà stata la fame che avevo patito fino ad allora, ma riuscivo facilmente a dissotterrare gli ossi che il mio padrone nascondeva. Poi si passò ad esercitare l’olfatto, dapprima con pezzi di gorgonzola sotterrati di alcuni centimetri, il cui pungente odore mi preparava a individuare i tartufi neri, che vennero usati nell’ultima fase dell’addestramento.
A detta dei “tartufai” della zona, amici del padrone, promettevo di diventare uno specialista d’eccezione. Ma è pur vero che il mio addestratore ci sapeva fare: ad ogni operazione di ritrovamento riuscita mi allungava un boccone e una carezza. E così il cibo e l’incoraggiamento che il padrone mi dava ad ogni ritrovamento mi spinsero ad affinare la mia abilità nella ricerca dei tartufi.
Comunque sia, la mia condizione di cane aveva subìto un radicale cambiamento. Non ero più lo zimbello delle galline e dei conigli, legato accanto al letamaio di casa. Ora possedevo una bella cuccia indipendente nell’orto e, soprattutto, non si dimenticavano di me all’ora di pranzo.
“Vita da cani da tartufo!”, ora ripetevo compiaciuto a me stesso, mostrando ai visitatori, con un ampio sorriso amichevole, la bianca balconata dei miei denti, senza sentirmi affatto in dovere di abbaiare.
Il mio addestramento era cominciato all’inizio dell’inverno e all’inizio dell’autunno successivo ero pronto ad uscire per la ricerca vera e propria. Dalla metà di ottobre ai primi di gennaio, infatti, è il tempo in cui, dalle mie parti, si ricercano i tartufi della varietà più pregiata.
Il mio primo successo
Le mie prime uscite di agosto e settembre, con scarsi risultati, appartenevano ancora alla fase preparatoria. Il mio vero debutto avvenne però a metà ottobre. Confesso che ero più preoccupato che entusiasta. Mi rendevo conto che, se non avessi ottenuto subito qualche risultato, sarei potuto ritornare nel dimenticatoio presso il letamaio e alle prese con i morsi della fame. Fu probabilmente questa la molla che mi armò di buona volontà. Col padrone che mi teneva al guinzaglio, ci inoltrammo per un sentiero di campagna, fra i colori e i profumi di un autunno precoce, puntando in direzione di un boschetto di querce, sul fianco della collina.
Come uno scolaretto che va a scuola ripetendo nella mente la poesia imparata a memoria, per non dimenticarla, tenevo fisso nel cervello l’acre odore dei tartufi usati per addestrarmi e fiutavo con una intensità tale che, se avessi individuato la preda, credo l’avrei aspirata dal terreno, senza bisogno di raspare.
Arrivando in prossimità del bosco di querce, cominciai a sentire quell’inconfondibile odore che ricorda vagamente quello dell’aglio. Mi arrestai di colpo e poi puntai con uno strappo nella direzione suggerita dall’olfatto. Man mano che l’odore si faceva più forte e vicino, cresceva l’entusiasmo che mi accorsi di trasmettere al mio accompagnatore. “Cerca Flik, cerca . . . forza!”, mi diceva eccitato il padrone.
Mi fermai ai piedi di una giovane quercia e non ebbi dubbi: era lì sotto. Cominciai a raspare, ma fui quasi subito tirato da parte dal padrone che, per non stancarmi, proseguì a scavare con la caratteristica zappetta dal manico corto.
Non riuscivo a staccare gli occhi da quella fossetta che si faceva più profonda ad ogni colpo dato con mano esperta, per evitare di danneggiare il tartufo, se ci fosse stato.
Dopo un po’ il padrone si alzò con un sospiro e uno sguardo di riprovazione negli occhi. “Flik, mi hai preso in giro”, gli lessi nel pensiero. Lo guardai implorante, come per dirgli: “Che fai?” E dopo un attimo mi lanciai sulla buca. Raspai ancora per qualche centimetro finché in fondo apparve una massa grigiastra. Qualche altro abile colpo con la zappetta e venne alla luce un bellissimo tartufo del peso di circa mezzo chilogrammo! La forma tondeggiante ed appiattita ricordava vagamente quella di una patata. Quei venti centimetri di terra non furono sufficienti a nascondere al mio olfatto esercitato quella meraviglia.
Una serie di complimenti e un abbondante boccone furono la miglior ricompensa per quel mio primo successo, l’inizio di una brillante carriera.
Dopo quattro anni di attività mi ritengo ora un esperto nel campo dei tartufi. L’incontro con quella meraviglia nascosta mi ha fatto diventare un amatore del tartufo, questo fungo sotterraneo dalla forma di patata ma dal sapore delizioso.
Lasciate che vi snoccioli un po’ della mia cultura enciclopedica. Cercherò di essere meno noioso possibile.
Varietà di tartufi
Cominciamo proprio dall’oggetto del mio primo successo. Quel bel patatone di mezzo chilogrammo e del diametro di circa dieci centimetri era un Tuber magnatum, comunemente detto tartufo biancone, bianco o d’Alba. Sicuramente è la varietà più nota e ricercata per il suo profumo. Era cresciuto sulle radici di una quercia. Infatti il tartufo è un fungo che cresce sottoterra in simbiosi con le radici di particolari alberi quali il nocciolo, il faggio, il pioppo, il salice, oltre alla quercia.
Il terreno ha una parte determinante nella formazione dei tartufi, ecco perché non si trovano dappertutto. La natura calcareo-argillosa del terreno in zone quali le Langhe, il Monferrato, l’Alessandrino, il Ferrarese, l’Appennino Tosco-Emiliano, le Marche e l’Umbria, crea le condizioni ideali per il loro sviluppo.
Qualitativamente inferiore al biancone è il “bianchetto” o Tuber borchii. Anch’esso è di forma tondeggiante, a volte piuttosto irregolare, con la superficie esterna pelosa e di colore biancastro. Le sue dimensioni non superano i 5-6 centimetri di diametro.
È un tartufo invernale, per così dire, in quanto la sua crescita si protrae fino a tutto febbraio. La zona in cui si sviluppa è più estesa e lo si può trovare anche nell’Italia meridionale e in Sicilia.
In Italia il “bianchetto” è un po’ il tartufo di “serie B”, essendo conosciutissimo ma meno apprezzato; mentre nelle zone ove il biancone scarseggia, il “bianchetto” sostiene da solo il mercato.
C’è poi il tartufo nero pregiato, il famoso truffe de Périgord per i francesi, o Tuber melanosporum per i botanici. Anche se di qualità inferiore al biancone, è assai ricercato perché è più adatto alla conservazione. I tartufi possono essere conservati in olio, salamoia, liquidi alcolici, oppure sotto sabbia, crusca o segatura. Vengono anche essiccati. La Francia è la massima produttrice di tartufi, seguita dall’Italia.
Questi tipi che ora vi ho descritti sono le varietà principali e più ricercate; ma non pensate che ci si imbatta sempre in loro. In certe giornate, dopo ore ed ore di ricerca, si può tornare a casa con tre o quattro palline prive di qualsiasi aroma, legnose, con un odore fetido. A volte capita di trovare anche una specie di tartufo velenoso, il cosiddetto tartufo dei maiali. Per l’intenditore è inconfondibile. Ha una superficie liscia color nocciola chiaro e nel periodo della maturazione è cosparso di screpolature quasi biancastre. Emana un caratteristico odore piccante e sgradevole che lo distingue dalle altre varietà. Ma tranquillizzatevi. Anche se per sbaglio vi capitasse di mangiarlo, vi procurerebbe al massimo disturbi di stomaco, accompagnati da vomito più o meno intenso secondo la quantità ingerita, ma senza conseguenze letali.
Come sono usati
Io riconosco che non tutti i gusti sono uguali e che per qualcuno il tartufo è solo una patata verrucosa, dal colore poco attraente e dall’odore sgradevole. Ciò nondimeno è un fatto che fin dall’antichità era apprezzato da greci e romani, che ne facevano largo uso in cucina. Un altro fatto è che, a motivo della sua rarità, assume prezzi astronomici sulla tavola degli amatori. Pensate che nell’autunno dello scorso anno, sul mercato di Alba, il tartufo biancone di prima qualità era venduto anche a più di duecentomila lire l’etto!
Diciamo pure che è qualche cosa in più, di cui si può anche fare a meno; ma quando c’è . . . È prevalentemente impiegato per aromatizzare; usato generalmente crudo, viene tagliato in fette sottili o grattugiato su risotti, maccheroni, costolette e arrosti. Con una certa quantità (c’è chi può permetterselo) è possibile realizzare ottime ricette. Ne volete una? La prima che mi viene in mente, “tartufi alla provenzale”: mettete alcune fette di lardo in una casseruola, insieme a vino bianco e a uno spicchio d’aglio. Fatevi cuocere moderatamente i tartufi affettati, quindi togliete la casseruola dal fuoco aggiungendo olio finissimo. Servite il tutto caldo con qualche goccia di limone, e . . . buon appetito.
Non ho la pretesa che questi cenni gastronomici siano stati sufficienti a convincervi della squisitezza del prodotto, ma almeno spero di invogliarvi a richiederne una grattatina sul risotto, qualora se ne presentasse l’occasione.
Si possono coltivare?
Questa domanda sorge spontanea dopo averne saputo il prezzo che, ovviamente, è determinato dalla quantità disponibile sul mercato. La coltura artificiale dei tartufi è possibile, in una certa misura, trapiantando in terreni calcarei e argillosi giovani piante adatte ai tartufi, come quelle menzionate all’inizio. Quindi intorno alle piante si deve mettere terra ricca di micelio dei tartufi presa dalle zone già in produzione. Il terreno deve poi essere lavorato superficialmente mediante fresatura o erpicatura. Tre anni dopo si deve operare il diradamento delle piantine per favorire lo sviluppo delle radici in superficie, le sole adatte alla simbiosi del tartufo.
Intorno al quinto anno appariranno le prime macchie di tartufi, identificabili in superficie in quanto su di esse l’erba cresce con difficoltà e quindi scompare del tutto. Ma prima dell’ottavo o decimo anno non si avrà la vera raccolta, la quale toccherà punte massime fra il quindicesimo e il trentesimo anno. La durata di produzione di una coltura va dai 40 ai 50 anni. È evidente che la realizzazione di una tartufaia è un progetto a lunga scadenza; ma forse solo così, col rimboschimento delle colline su ampia scala, sarebbe possibile far diminuire il prezzo della “meraviglia nascosta”, una fra le tante meraviglie della creazione di Dio, che, proprio a motivo della sua rarità, pochi di voi avrete avuto la possibilità di assaggiare.
Forse concluderete che, per togliervi la voglia, fareste prima ad addestrare un cane. E perché no? Avete un cane da pagliaio, come me, che finora non vi ha dato molte soddisfazioni? Provate ad addestrarlo, così come il mio padrone ha fatto con me. Può darsi che in breve tempo, e con poca spesa, riusciate ad ottenere un vero cane da tartufo: un professionista che vale milioni e . . . con poche pretese.
[Testo in evidenza a pagina 22]
“Tenevo fisso nel cervello l’acre odore dei tartufi usati per addestrarmi e fiutavo con intensità”
[Testo in evidenza a pagina 23]
Il terreno ha una parte determinante nella formazione dei tartufi
[Testo in evidenza a pagina 23]
Il tartufo era apprezzato da greci e romani, che ne facevano largo uso in cucina
[Testo in evidenza a pagina 24]
Si può anche farne a meno; ma quando c’è . . .