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RuandaAnnuario dei Testimoni di Geova del 2012
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NASCOSTI PER 75 GIORNI
Tharcisse Seminega si era battezzato in Congo nel 1983. All’epoca del genocidio viveva in Ruanda, a Butare, che si trova a circa 120 chilometri da Kigali. “Dopo la caduta dell’aereo presidenziale nei pressi di Kigali venimmo a sapere che era stato emanato l’ordine di uccidere tutti i tutsi”, racconta Tharcisse. “Due fratelli cercarono di pianificare la nostra fuga attraverso il Burundi, ma tutte le strade e tutti i sentieri erano pattugliati dai miliziani Interahamwe.
“Eravamo prigionieri in casa nostra e non sapevamo dove andare. C’erano quattro soldati a guardia della nostra casa e uno di loro aveva posizionato una mitragliatrice a circa 200 metri di distanza. Raccolto in una fervida preghiera, gridai: ‘Geova, noi non possiamo fare niente per salvarci. Solo tu puoi fare qualcosa!’ Sul far della sera un fratello si precipitò a casa nostra temendo che fossimo già morti. I soldati gli permisero di entrare in casa e di rimanere qualche minuto. Quando vide che eravamo ancora vivi tirò un sospiro di sollievo. In qualche modo riuscì a portare due dei nostri figli a casa sua. Poi informò altri due fratelli, Justin Rwagatore e Joseph Nduwayezu, che la mia famiglia era nascosta e che avevamo bisogno del loro aiuto. Nottetempo quei fratelli vennero subito da noi e, nonostante le difficoltà e il pericolo, ci condussero a casa di Justin.
“La nostra permanenza in casa di Justin fu piuttosto breve perché l’indomani tutti sapevano già che eravamo nascosti lì. Lo stesso giorno un certo Vincent ci avvertì che gli Interahamwe si preparavano per venire a ucciderci. Quell’uomo aveva studiato la Bibbia con Justin, ma non aveva abbracciato la verità. Vincent suggerì che in un primo momento ci nascondessimo tra i cespugli nei pressi della casa di Justin. Poi, calata la sera, ci portò a casa sua. Ci nascose in una capanna di forma circolare usata per le capre. Le pareti e il pavimento erano di fango, il tetto di paglia, e non c’erano finestre.
“I giorni sembravano non passare mai in quella capanna, che si trovava in prossimità di un incrocio a pochi metri dal mercato più frequentato della zona. Sentivamo i passanti parlare di quello che avevano fatto durante il giorno, inclusi i terrificanti racconti degli omicidi che avevano commesso e di ciò che avevano intenzione di fare. In quell’atmosfera, che alimentava le nostre paure, pregavamo costantemente perché potessimo salvarci.
“Vincent fece tutto il possibile per soddisfare le nostre necessità. Rimanemmo lì per un mese; poi, verso la fine di maggio, con l’arrivo dei miliziani Interahamwe in fuga da Kigali il posto diventò troppo pericoloso. I fratelli decisero di trasferirci a casa di un Testimone per nasconderci in una sorta di scantinato dove già si trovavano tre fratelli. Per arrivare a casa sua facemmo un pericoloso viaggio a piedi di quattro ore e mezza al buio. Quella notte pioveva a dirotto, cosa che si rivelò una benedizione dal momento che la pioggia ci nascose alla vista degli aguzzini.
“Il nuovo rifugio era una buca profonda circa un metro e mezzo con una tavola che ne copriva l’ingresso. Per accedervi occorreva scendere con una scala a pioli, rannicchiarsi e strisciare lungo un tunnel fino ad arrivare a una stanza di circa due metri quadrati. C’era puzza di muffa e da una crepa riusciva a filtrare solo un minuscolo raggio di luce. Io, mia moglie Chantal e i nostri cinque figli dividevamo quello spazio insieme ad altri tre. Tutti e dieci rimanemmo stipati in quello spazio angusto per sei settimane. Anche solo accendere una candela non era prudente, perché avrebbe potuto rivelare la nostra presenza. Comunque, in quel periodo travagliato Geova ci sostenne. I fratelli rischiarono la loro vita per portarci cibo e medicinali e per incoraggiarci. A volte accendevamo una candela nelle ore diurne per leggere la Bibbia, La Torre di Guardia o la scrittura del giorno.
“Ogni storia ha il suo epilogo”, prosegue Tharcisse. “Questa finì il 5 luglio del 1994. Vincent ci disse che Butare era stata occupata dall’esercito invasore. Quando uscimmo dal sottosuolo, alcuni stentarono a credere che fossimo ruandesi perché al buio il colore della nostra pelle si era sbiadito. Inoltre per qualche tempo non riuscimmo a parlare a voce alta; riuscivamo solo a sussurrare. Ci vollero delle settimane per riprenderci.
“Tutti quegli eventi influirono profondamente su mia moglie, la quale nei precedenti dieci anni aveva rifiutato di studiare la Bibbia con i testimoni di Geova. A quel punto, però, si mise a studiare la Bibbia. Quando le chiedevano cosa l’avesse spinta a farlo, rispondeva: ‘Sono stata toccata dall’amore che i fratelli hanno manifestato nei nostri confronti e dai sacrifici che hanno fatto per salvarci. Inoltre ho sentito la potente mano di Geova, il quale ci ha salvato dai machete degli assassini’. Dedicò la sua vita a Geova e si battezzò alla prima assemblea tenuta dopo la guerra.
“Ci sentiamo in debito con tutti i fratelli e le sorelle che con il loro intervento diretto e con le loro fervide preghiere hanno contribuito a salvarci. Abbiamo avvertito la spontaneità e la profondità del loro amore, amore che supera le barriere etniche”.
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RuandaAnnuario dei Testimoni di Geova del 2012
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[Immagine a pagina 217]
Tharcisse Seminega e la moglie, Chantal
[Immagine a pagina 218]
Tharcisse e Justin accanto alla capanna in cui Tharcisse e la sua famiglia rimasero nascosti per un mese
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