-
RuandaAnnuario dei Testimoni di Geova del 2012
-
-
INIZIA IL GENOCIDIO
La sera di mercoledì 6 aprile fu abbattuto un aereo, che precipitò nei pressi di Kigali e andò in fiamme. A bordo c’erano i presidenti di Ruanda e Burundi. Non ci furono superstiti. Quella sera poche persone sapevano dell’accaduto; la radio ufficiale non fece alcun annuncio.
I tre missionari, ovvero i Bint e Henk, non dimenticheranno mai i giorni successivi. Il fratello Bint spiega: “Il 7 aprile fummo svegliati di primo mattino dal rumore degli spari e delle esplosioni delle bombe a mano. La cosa non ci sorprese, dal momento che negli ultimi mesi la situazione politica nel paese era diventata estremamente instabile. Comunque, mentre preparavamo la colazione, ricevemmo una telefonata. Emmanuel Ngirente, che si trovava presso l’ufficio traduzioni, ci disse che la stazione radio locale aveva annunciato la morte dei due presidenti nella tragedia aerea. Il ministro della Difesa raccomandò a tutti i cittadini di Kigali di non uscire di casa.
“Verso le nove del mattino sentimmo degli sciacalli irrompere nella casa dei vicini. Rubarono l’auto di famiglia e uccisero la madre.
“Presto arrivò a casa nostra un gruppo di soldati e sciacalli, che batterono sul cancello di metallo e suonarono il campanello. Rimanemmo in silenzio e non uscimmo per rispondere. Per qualche ragione non tentarono di forzare il cancello, ma passarono alle altre case. Tutt’intorno continuavano a risuonare i colpi delle armi automatiche e il fragore delle esplosioni; non c’era alcuna via di fuga. Gli spari erano forti e vicini, così ci spostammo al centro della casa, nel corridoio che separava le stanze, per cercare di ripararci da eventuali proiettili vaganti. Ci rendemmo conto che quella situazione si sarebbe prolungata, pertanto decidemmo di razionare il cibo preparando un solo pasto al giorno da consumare insieme. Il giorno seguente avevamo appena terminato di pranzare e stavamo ascoltando il notiziario internazionale alla radio quando Henk gridò: ‘Stanno scavalcando il recinto!’
“C’era poco tempo per pensare. Ci rifugiammo in bagno e chiudemmo la porta a chiave. Insieme pregammo Geova di aiutarci ad affrontare qualunque cosa accadesse. Prima che finissimo di pregare, sentimmo i miliziani e i saccheggiatori sfasciare le porte e le finestre. Nel giro di pochi minuti furono in casa; urlavano e mettevano tutto sottosopra. Insieme ai miliziani ci sarà stata una quarantina di sciacalli: uomini, donne e bambini. Sentimmo anche sparare mentre alcuni litigavano per degli oggetti che avevano trovato.
“Dopo una quarantina di minuti, che per noi furono un’eternità, cercarono di aprire la porta del bagno. Dal momento che era serrata, cominciarono a forzarla. Capimmo che era arrivato il momento di uscire e farci vedere. Quegli uomini erano completamente fuori di sé e sotto l’effetto di droghe. Ci minacciarono armati di machete e coltelli. Jennie implorava Geova ad alta voce. Un uomo che brandiva un machete colpì Henk alla base del collo con la parte piatta della lama facendolo cadere nella vasca da bagno. In qualche modo riuscii a trovare dei soldi e li diedi agli aggressori, che si azzuffarono per impossessarsene.
“Ad un tratto ci accorgemmo di un ragazzo che ci fissava. Anche se non lo conoscevamo, lui ci riconobbe, forse perché ci aveva visti predicare. Ci prese, ci spinse nel bagno e disse di chiudere la porta. Ci assicurò che ci avrebbe salvati.
“Il trambusto seguitò ancora per circa mezz’ora, poi scese il silenzio. A quel punto il ragazzo tornò dicendoci che potevamo venir fuori. Ci fece uscire dalla casa e insisté perché andassimo via subito. Non ci fermammo a prendere nulla. Fu agghiacciante vedere i corpi di alcuni vicini che erano stati uccisi. Due membri della Guardia Presidenziale ci scortarono fino alla casa di un ufficiale dell’esercito che si trovava nelle vicinanze. A sua volta l’ufficiale ci scortò fino all’hotel Mille Collines, dove molti si erano rifugiati. Infine, l’11 aprile, dopo diverse ore vissute con apprensione e al termine di una logorante operazione militare giungemmo alle spalle dell’aeroporto compiendo un giro tortuoso; da lì fummo fatti evacuare e portati in Kenya. Quando arrivammo alla reception della Betel di Nairobi, eravamo tutti in disordine. Henk, dal quale ci eravamo separati nel corso dell’evacuazione, arrivò qualche ora dopo. La famiglia Betel ci coprì di attenzioni e ci diede tutto il suo sostegno”.
SALVI GRAZIE ALLA PREGHIERA DI UNA BAMBINA
Il giorno successivo alla tragedia in cui persero la vita i presidenti di Ruanda e Burundi, sei soldati governativi si presentarono a casa del fratello Rwakabubu. Avevano gli occhi iniettati di sangue e l’alito che puzzava di alcol ed erano visibilmente sotto l’effetto di droghe. Erano in cerca di armi, ma il fratello Rwakabubu disse loro che lui e i suoi familiari erano testimoni di Geova e pertanto non possedevano armi.
I soldati sapevano che i testimoni di Geova, essendo neutrali, si erano rifiutati di sostenere il governo e non avevano fatto donazioni in favore dell’esercito, e quindi si infuriarono. Gaspard e Melanie Rwakabubu non sono tutsi; comunque la milizia hutu Interahamwe non uccideva solo i tutsi ma anche gli hutu moderati, soprattutto quelli sospettati di simpatizzare per i tutsi o l’esercito invasore.
I soldati picchiarono Gaspard e Melanie con dei bastoni e li portarono nella camera da letto insieme ai loro cinque figli. Tolte le lenzuola dal letto, cominciarono a servirsene per coprire i Rwakabubu. Alcuni impugnavano delle bombe a mano, il che palesava le loro intenzioni. Gaspard chiese: “Per favore, possiamo pregare?”
In tono sprezzante uno dei soldati respinse la richiesta. Poi, dopo aver discusso un po’, i militari diedero il permesso di pregare, anche se con una certa riluttanza. “Ok”, dissero, “avete due minuti per pregare”.
I Rwakabubu pregarono in silenzio, ad eccezione di Deborah, di sei anni, la quale pregò ad alta voce: “Geova, ci vogliono uccidere; come faremo a fare le visite ulteriori alle persone a cui ho predicato con papà e a cui ho lasciato cinque riviste? Loro ci aspettano e hanno bisogno di conoscere la verità. Ti prometto che se ci salviamo divento proclamatrice, mi battezzo e faccio la pioniera! Geova, salvaci!”
Sentendo queste parole, i soldati rimasero meravigliati. Uno di loro disse: “Se non vi uccidiamo è solo grazie alla preghiera di questa bimba. Se viene qualcun altro, ditegli che qui ci siamo già stati noi”.b
LA SITUAZIONE SI AGGRAVA
Con l’avanzata verso la capitale dell’esercito invasore (il Fronte Patriottico Ruandese) il conflitto si fece sempre più violento. Questo spinse i disperati miliziani Interahamwe a compiere ulteriori stragi.
In ogni angolo della città e a tutti gli incroci c’erano posti di blocco sorvegliati da soldati e miliziani Interahamwe armati, oltre che da persone del posto. Tutti gli uomini che godevano di buona salute venivano costretti a pattugliare giorno e notte i posti di blocco, che servivano a identificare i tutsi e ucciderli.
Mentre in tutto il paese continuavano le uccisioni, centinaia di migliaia di ruandesi lasciarono le loro case. Molti, inclusi dei testimoni di Geova, trovarono rifugio nei vicini Congo e Tanzania.
DAVANTI ALLA GUERRA E ALLA MORTE
Nelle testimonianze che seguono fratelli e sorelle raccontano di come il mondo in cui vivevano andò in frantumi. Tenete presente che negli anni ’80 i testimoni di Geova del Ruanda avevano già sopportato dure prove che avevano rafforzato e affinato la loro fede e il loro coraggio. La fede permise loro di ‘non fare parte del mondo’ rifiutandosi di partecipare alle elezioni, alle questioni politiche e alla difesa del paese. (Giov. 15:19) Il coraggio li aiutò ad affrontare le conseguenze di quel rifiuto, ovvero il disprezzo, l’imprigionamento, la persecuzione e la morte. Quelle provate qualità, unite al loro amore per Dio e per il prossimo, spinsero i testimoni di Geova non solo a non prendere parte al genocidio ma anche a rischiare la loro vita per proteggersi a vicenda.
Molte esperienze non sono state incluse, in quanto la maggior parte dei fratelli, i quali non cercano vendetta, preferirebbe dimenticare i dettagli più terrificanti. Ci auguriamo che la loro fede sia per tutti noi un modello a cui ispirarsi e che ci spinga a manifestare pienamente l’amore che contraddistingue i veri discepoli di Gesù Cristo. — Giov. 13:34, 35.
LE TRAVERSIE DI JEAN E CHANTAL
Jean de Dieu Mugabo è un fratello allegro e pieno di attenzioni che cominciò a studiare con i testimoni di Geova nel 1982. Prima del suo battesimo, avvenuto nel 1984, era già stato imprigionato tre volte perché si identificava con i testimoni di Geova. Nel 1984 si battezzò anche Chantal, colei che nel 1987 divenne sua moglie. Quando cominciò il genocidio, i due avevano tre figlie. Le due più grandi si trovavano con i nonni fuori città e solo la piccola di sei mesi era con Jean e Chantal.
Il primo giorno del genocidio, il 7 aprile del 1994, i soldati e gli Interahamwe iniziarono ad assaltare tutte le case dei tutsi. Jean fu arrestato e bastonato; ma riuscì a scappare e, assieme a un altro fratello, corse in una vicina Sala del Regno. Intanto, ignorando cosa fosse successo al marito, Chantal cercò affannosamente di uscire dalla città con la bimba per ricongiungersi con le altre due figlie.
Jean racconta cosa successe a lui: “In passato la Sala del Regno era stata un panificio e c’era ancora un grosso camino. Per una settimana io e l’altro fratello ci nascondemmo proprio nella Sala del Regno e, quando non era pericoloso, una sorella tutsi ci portava del cibo. Successivamente dovemmo nasconderci sotto il tetto, tra la copertura in lamiera e il soffitto, posto che di giorno, con il sole cocente, diventava una fornace. Alla ricerca disperata di un rifugio migliore, riuscimmo a rimuovere alcuni mattoni dalla struttura muraria del camino e ci infilammo al suo interno, dove rimanemmo rannicchiati per oltre un mese.
“Nelle vicinanze c’era un posto di blocco. I miliziani Interahamwe spesso entravano nella Sala del Regno per chiacchierare o per ripararsi dalla pioggia e noi da sopra li sentivamo parlare. Quando era possibile la sorella continuava a portarci da mangiare. A volte mi sembrava di non farcela più, ma continuavamo a pregare per resistere. Alla fine, il 16 maggio, la sorella venne a informarci che il Fronte Patriottico Ruandese aveva assunto il controllo della parte della città in cui ci trovavamo e che potevamo uscire allo scoperto”.
Cos’era successo nel frattempo alla moglie di Jean, Chantal? Ecco il suo racconto: “L’8 aprile riuscii a scappare da casa con la bimba. Trovai due sorelle: Immaculée, sulla cui carta d’identità era indicato che era hutu, e Suzanne, che era tutsi. Volevamo raggiungere Bugesera, una cittadina distante circa 50 chilometri, dove si trovavano le altre due mie figlie e i miei genitori. Comunque venimmo a sapere che su tutte le strade in uscita dalla città c’erano dei posti di blocco, così decidemmo di dirigerci in un villaggio vicino, nella periferia di Kigali, dove Immaculée aveva un parente di nome Gahizi, anche lui testimone di Geova. Gahizi, che era hutu, ci accolse e, nonostante le minacce dei vicini, fece tutto il possibile per aiutarci. Purtroppo, però, quando i soldati governativi e gli Interahamwe seppero che Gahizi aveva protetto dei tutsi, gli spararono.
“Dopo aver freddato Gahizi, i soldati ci portarono al fiume per ucciderci. In preda al terrore, aspettavamo solo che ci facessero fuori. All’improvviso si accese un diverbio tra i soldati, uno dei quali disse: ‘Non uccidete le donne. Ci porterà sfortuna. Ora è il momento di uccidere solo gli uomini’. Poi uno dei fratelli che ci avevano seguito, André Twahirwa, il quale si era battezzato solo la settimana precedente, riuscì a portarci a casa sua nonostante le rimostranze dei vicini. Il giorno seguente ci riportò a Kigali, dove sperava di trovarci un posto sicuro. Ci aiutò a superare diversi posti di blocco estremamente pericolosi. Immaculée teneva in braccio la bimba; speravamo che in questo modo, qualora ci avessero fermati, la piccola sarebbe stata risparmiata. Io e Suzanne strappammo i nostri documenti di riconoscimento per cercare di nascondere le nostre identità.
“A uno dei posti di blocco gli Interahamwe picchiarono Immaculée e le chiesero: ‘Perché viaggi con questi tutsi?’ A me e a Suzanne non davano il permesso di passare. Quindi Immaculée e André proseguirono e andarono a casa del fratello Rwakabubu. Correndo un grosso rischio, poi, André e altri due fratelli, Simon e Mathias, ci aiutarono a superare l’ultimo posto di blocco; Suzanne andò a casa di un parente e io fui portata a casa del fratello Rwakabubu.
“Comunque, rimanere a casa del fratello Rwakabubu era diventato troppo pericoloso; così, anche se con grande difficoltà, i fratelli riuscirono a portarmi alla Sala del Regno, dove erano nascosti altri Testimoni. Fino a quel momento vi si trovavano dieci fratelli e sorelle tutsi e altri che erano in fuga. L’attaccamento che Immaculée provava nei miei confronti era talmente grande che si rifiutò di lasciarmi. A un certo punto disse: ‘Se ti uccidono e io sopravvivo, porterò in salvo la tua bambina’”.c
Intanto un fratello che viveva nelle vicinanze, Védaste Bimenyimana, la cui moglie era tutsi, era riuscito a portare la sua famiglia in un posto sicuro. Subito dopo tornò indietro per aiutare quelli che erano rimasti nella Sala del Regno a trovare un altro rifugio. Fortunatamente si salvarono tutti.
Dopo il genocidio Jean e Chantal vennero a sapere che i loro genitori e le loro figlie di due e cinque anni, che stavano con i nonni materni, erano stati uccisi assieme a un centinaio di altri parenti. Che effetto ebbe su di loro quella tragedia? “All’inizio il dolore era insopportabile”, ammette Chantal. “Eravamo storditi. La perdita di vite umane aveva superato di gran lunga ogni possibile previsione. Non potevamo far altro che rimetterci completamente a Geova nella speranza di rivedere le nostre figlie una volta risuscitate”.
NASCOSTI PER 75 GIORNI
Tharcisse Seminega si era battezzato in Congo nel 1983. All’epoca del genocidio viveva in Ruanda, a Butare, che si trova a circa 120 chilometri da Kigali. “Dopo la caduta dell’aereo presidenziale nei pressi di Kigali venimmo a sapere che era stato emanato l’ordine di uccidere tutti i tutsi”, racconta Tharcisse. “Due fratelli cercarono di pianificare la nostra fuga attraverso il Burundi, ma tutte le strade e tutti i sentieri erano pattugliati dai miliziani Interahamwe.
“Eravamo prigionieri in casa nostra e non sapevamo dove andare. C’erano quattro soldati a guardia della nostra casa e uno di loro aveva posizionato una mitragliatrice a circa 200 metri di distanza. Raccolto in una fervida preghiera, gridai: ‘Geova, noi non possiamo fare niente per salvarci. Solo tu puoi fare qualcosa!’ Sul far della sera un fratello si precipitò a casa nostra temendo che fossimo già morti. I soldati gli permisero di entrare in casa e di rimanere qualche minuto. Quando vide che eravamo ancora vivi tirò un sospiro di sollievo. In qualche modo riuscì a portare due dei nostri figli a casa sua. Poi informò altri due fratelli, Justin Rwagatore e Joseph Nduwayezu, che la mia famiglia era nascosta e che avevamo bisogno del loro aiuto. Nottetempo quei fratelli vennero subito da noi e, nonostante le difficoltà e il pericolo, ci condussero a casa di Justin.
“La nostra permanenza in casa di Justin fu piuttosto breve perché l’indomani tutti sapevano già che eravamo nascosti lì. Lo stesso giorno un certo Vincent ci avvertì che gli Interahamwe si preparavano per venire a ucciderci. Quell’uomo aveva studiato la Bibbia con Justin, ma non aveva abbracciato la verità. Vincent suggerì che in un primo momento ci nascondessimo tra i cespugli nei pressi della casa di Justin. Poi, calata la sera, ci portò a casa sua. Ci nascose in una capanna di forma circolare usata per le capre. Le pareti e il pavimento erano di fango, il tetto di paglia, e non c’erano finestre.
“I giorni sembravano non passare mai in quella capanna, che si trovava in prossimità di un incrocio a pochi metri dal mercato più frequentato della zona. Sentivamo i passanti parlare di quello che avevano fatto durante il giorno, inclusi i terrificanti racconti degli omicidi che avevano commesso e di ciò che avevano intenzione di fare. In quell’atmosfera, che alimentava le nostre paure, pregavamo costantemente perché potessimo salvarci.
“Vincent fece tutto il possibile per soddisfare le nostre necessità. Rimanemmo lì per un mese; poi, verso la fine di maggio, con l’arrivo dei miliziani Interahamwe in fuga da Kigali il posto diventò troppo pericoloso. I fratelli decisero di trasferirci a casa di un Testimone per nasconderci in una sorta di scantinato dove già si trovavano tre fratelli. Per arrivare a casa sua facemmo un pericoloso viaggio a piedi di quattro ore e mezza al buio. Quella notte pioveva a dirotto, cosa che si rivelò una benedizione dal momento che la pioggia ci nascose alla vista degli aguzzini.
“Il nuovo rifugio era una buca profonda circa un metro e mezzo con una tavola che ne copriva l’ingresso. Per accedervi occorreva scendere con una scala a pioli, rannicchiarsi e strisciare lungo un tunnel fino ad arrivare a una stanza di circa due metri quadrati. C’era puzza di muffa e da una crepa riusciva a filtrare solo un minuscolo raggio di luce. Io, mia moglie Chantal e i nostri cinque figli dividevamo quello spazio insieme ad altri tre. Tutti e dieci rimanemmo stipati in quello spazio angusto per sei settimane. Anche solo accendere una candela non era prudente, perché avrebbe potuto rivelare la nostra presenza. Comunque, in quel periodo travagliato Geova ci sostenne. I fratelli rischiarono la loro vita per portarci cibo e medicinali e per incoraggiarci. A volte accendevamo una candela nelle ore diurne per leggere la Bibbia, La Torre di Guardia o la scrittura del giorno.
“Ogni storia ha il suo epilogo”, prosegue Tharcisse. “Questa finì il 5 luglio del 1994. Vincent ci disse che Butare era stata occupata dall’esercito invasore. Quando uscimmo dal sottosuolo, alcuni stentarono a credere che fossimo ruandesi perché al buio il colore della nostra pelle si era sbiadito. Inoltre per qualche tempo non riuscimmo a parlare a voce alta; riuscivamo solo a sussurrare. Ci vollero delle settimane per riprenderci.
“Tutti quegli eventi influirono profondamente su mia moglie, la quale nei precedenti dieci anni aveva rifiutato di studiare la Bibbia con i testimoni di Geova. A quel punto, però, si mise a studiare la Bibbia. Quando le chiedevano cosa l’avesse spinta a farlo, rispondeva: ‘Sono stata toccata dall’amore che i fratelli hanno manifestato nei nostri confronti e dai sacrifici che hanno fatto per salvarci. Inoltre ho sentito la potente mano di Geova, il quale ci ha salvato dai machete degli assassini’. Dedicò la sua vita a Geova e si battezzò alla prima assemblea tenuta dopo la guerra.
“Ci sentiamo in debito con tutti i fratelli e le sorelle che con il loro intervento diretto e con le loro fervide preghiere hanno contribuito a salvarci. Abbiamo avvertito la spontaneità e la profondità del loro amore, amore che supera le barriere etniche”.
AIUTO PER CHI AVEVA OFFERTO AIUTO
Justin Rwagatore, uno dei fratelli che aveva contribuito a salvare la famiglia di Tharcisse Seminega, successivamente ebbe bisogno di aiuto. Nel 1986 era già stato in prigione per essersi rifiutato di immischiarsi nelle attività politiche del governo. Ma qualche anno dopo aver protetto la famiglia di Tharcisse, Justin e alcuni fratelli furono arrestati nuovamente a motivo della loro posizione neutrale. Il fratello Seminega fece parte del gruppo che conferì con le autorità locali per chiarire la posizione dei testimoni di Geova in merito alla partecipazione alla vita politica. Spiegò alle autorità che se la sua famiglia si era salvata lo doveva a Justin. Di conseguenza tutti i fratelli furono rilasciati.
L’esempio dei fratelli durante il genocidio spinse altri ad accettare la verità. Suzanne Lizinde, una cattolica sui 65 anni, era rimasta turbata di fronte al sostegno che la sua chiesa aveva dato al genocidio. Il comportamento dei testimoni di Geova della sua zona nel corso del genocidio e l’amore che regna tra loro la spinsero a fare rapidi progressi. Suzanne si battezzò nel gennaio del 1998 e, nonostante dovesse percorrere cinque chilometri a piedi per attraversare le colline, non perdeva mai un’adunanza. Aiutò anche la sua famiglia a conoscere la verità. Oggi uno dei suoi figli è un anziano e uno dei nipoti è un servitore di ministero.
CENTINAIA DI MIGLIAIA DI PROFUGHI
Henk van Bussel, missionario che era stato mandato in Ruanda nel 1992, dovette lasciare il paese nell’aprile del 1994. Dopo essersi rifugiato in Kenya compì dei viaggi a Goma, nel Congo orientale, per partecipare ai soccorsi in favore dei profughi ruandesi. Dalla parte congolese della frontiera i fratelli tenevano d’occhio il confine e, per farsi riconoscere dai Testimoni provenienti dal Ruanda, esibivano pubblicazioni bibliche e cantavano o fischiettavano cantici del Regno.
Ovunque regnava il panico. Mentre proseguiva lo scontro tra le forze governative e il Fronte Patriottico Ruandese, centinaia di migliaia di persone si rifugiavano in Congo e in Tanzania. Il punto di raccolta per i fratelli che fuggivano a Goma era la Sala del Regno. In seguito, appena fuori città, fu allestito un campo profughi per oltre 2.000 persone che avrebbe ospitato esclusivamente i testimoni di Geova, i loro figli e gli interessati. I fratelli allestirono campi come quello anche in altre parti del Congo orientale.
Generalmente i profughi erano hutu che temevano rappresaglie. Ma nel caso dei fratelli insieme agli hutu scappavano anche i tutsi. Fare in modo che i tutsi attraversassero il confine per arrivare a Goma era estremamente rischioso, dal momento che il massacro dei tutsi continuava. Ad un certo punto portare di nascosto i fratelli tutsi fuori dal paese costava l’equivalente di circa 70 euro a persona.
Una volta in Congo, i fratelli volevano rimanere insieme. Non volevano avere niente a che fare con gli Interahamwe, che erano attivi nei campi allestiti dalle Nazioni Unite. Inoltre molti dei profughi non Testimoni erano sostenitori del governo uscente. A questi, e in particolare agli Interahamwe, non piacevano i testimoni di Geova, perché non si erano schierati con loro. I fratelli volevano tenersi separati anche per proteggere i Testimoni tutsi.
Essendosi lasciati dietro tutto ciò che possedevano, quelli che erano fuggiti dal Ruanda avevano bisogno di aiuti. E gli aiuti non si fecero attendere: i testimoni di Geova di Belgio, Congo, Francia, Kenya e Svizzera inviarono denaro, medicinali, cibo e indumenti, oltre a medici e infermieri. Con uno dei primi voli umanitari arrivarono dalla filiale della Francia molte piccole tende. Successivamente la filiale del Belgio inviò tende bungalow, che potevano ospitare intere famiglie. Furono inviati anche lettini da campeggio e materassi gonfiabili. La filiale del Kenya mandò oltre due tonnellate di indumenti e più di 2.000 coperte.
UN’EPIDEMIA DI COLERA
Dopo essere fuggite dal Ruanda, oltre 1.000 persone tra Testimoni e interessati furono sistemate nella Sala del Regno di Goma e in un appezzamento di terreno adiacente. Purtroppo, a motivo dell’enorme numero di profughi, a Goma scoppiò un’epidemia di colera. La filiale del Congo (Kinshasa) inviò tempestivamente medicinali per combattere l’epidemia, e il fratello Van Bussel prese un volo da Nairobi per portare a Goma 60 scatoloni di medicinali. La Sala del Regno fu adibita temporaneamente a ospedale e si cercò di isolare le vittime del contagio. Loic Domalain e un altro fratello, entrambi medici, insieme ad Aimable Habimana, un paramedico ruandese, lavorarono instancabilmente. Anche il fratello Hamel, della Francia, fu di grande aiuto in quella fase problematica come lo furono molti altri fratelli e sorelle, volontari con esperienza in campo medico, che arrivarono sul posto per prendersi cura dei malati.
Nonostante tutto l’impegno profuso per scongiurare il peggio, oltre 150 tra fratelli e interessati furono infettati, e circa 40 morirono prima che l’epidemia potesse essere arrestata. In seguito fu preso in affitto un grande appezzamento di terreno da utilizzare come campo profughi per i testimoni di Geova. Furono montate centinaia di piccole tende nonché un tendone arrivato dal Kenya che funse da ospedale. Alcuni operatori sanitari americani che visitarono il campo rimasero colpiti dalla pulizia e dall’ordine.
Agli inizi dell’agosto 1994 i profughi assistiti dal comitato di soccorso di Goma erano 2.274, numero che includeva i Testimoni, i loro figli nonché gli interessati. Molti altri fratelli erano a Bukavu e Uvira, nel Congo orientale, e nel Burundi. Altri 230 si trovavano in un campo profughi della Tanzania.
Quando i fratelli dell’ufficio traduzioni furono costretti a scappare da Kigali, andarono a Goma, dove presero in affitto una casa per continuare il loro lavoro; ciò fu possibile grazie al fatto che durante la guerra erano riusciti a salvare un computer e un generatore, che portarono con sé.
A Goma i servizi telefonici e postali erano pressoché inesistenti. Comunque, con l’aiuto di Testimoni che lavoravano all’aeroporto, i fratelli inviavano il materiale per la traduzione e altra posta tramite un volo settimanale Goma-Nairobi. I fratelli della filiale del Kenya facevano altrettanto per far arrivare le loro spedizioni a Goma.
Emmanuel Ngirente e altri due traduttori continuarono a tradurre al meglio delle loro possibilità nonostante le circostanze avverse. A motivo della guerra dovettero tralasciare alcuni articoli della Torre di Guardia, articoli che però furono tradotti e pubblicati successivamente in speciali opuscoli che i fratelli considerarono allo studio di libro di congregazione.
VIVERE IN UN CAMPO PROFUGHI
Mentre la popolazione continuava a scappare da Kigali, Francine, che si era rifugiata a Goma dopo l’uccisione del marito Ananie, fu trasferita in uno dei campi allestiti dai Testimoni. Ecco la sua descrizione della vita nel campo: “Ogni giorno c’erano dei fratelli e delle sorelle incaricati di cucinare. Preparavamo una colazione semplice che consisteva di una farinata di miglio o granturco. Preparavamo anche il pranzo. Dopo aver svolto le nostre faccende, eravamo liberi di andare in servizio. Predicavamo principalmente a familiari non Testimoni che si trovavano nel nostro campo e a chi abitava all’esterno. Dopo un po’, però, i miliziani Interahamwe, che erano in altri campi, si infuriarono vedendo che i Testimoni non erano insieme agli altri profughi, e la situazione si fece pericolosa”.
Nel novembre del 1994 fu chiaro che i fratelli potevano tornare in Ruanda senza correre grossi pericoli. Farlo era addirittura consigliabile se si teneva conto dell’insicurezza che regnava all’interno dei campi profughi congolesi che ospitavano i non Testimoni. Il ritorno, comunque, sarebbe stato difficoltoso. Gli Interahamwe speravano di riorganizzarsi e attaccare il Ruanda, e ai loro occhi chiunque lasciasse il Congo per tornare in Ruanda era un disertore.
I fratelli informarono il governo ruandese che i testimoni di Geova, i quali non avevano partecipato né alla guerra né al genocidio dei tutsi, desideravano tornare in patria. Il governo consigliò ai fratelli di prendere accordi con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), che disponeva di mezzi di trasporto che potevano essere utilizzati per il rimpatrio. Comunque, dato che i miliziani avrebbero impedito ai fratelli di tornare in Ruanda, bisognava ricorrere a qualche stratagemma.
Venne annunciato che a Goma si sarebbe tenuta un’assemblea speciale di un giorno e furono preparati degli striscioni. Poi di nascosto i Testimoni furono informati del rimpatrio. Per non destare sospetti, fu detto loro di lasciare nei campi profughi tutto quello che possedevano e di portare con sé solo la Bibbia e il libro dei cantici, come se stessero andando all’assemblea.
Francine ricorda che, dopo aver camminato per qualche ora, trovarono ad aspettarli dei camion che li avrebbero portati fino alla frontiera. Una volta che i fratelli ebbero oltrepassato il confine, l’ACNUR fece in modo che fossero prima trasportati fino a Kigali e poi nelle loro zone di provenienza. Fu così che la maggior parte dei fratelli con le proprie famiglie e gli interessati tornò in Ruanda nel dicembre del 1994. Il 3 dicembre di quell’anno il quotidiano belga Le Soir riferiva: “1.500 profughi ruandesi hanno deciso di lasciare lo Zaire [Congo] perché ritenevano che le condizioni non fossero tali da garantire un adeguato livello di sicurezza. Si tratta dei testimoni di Geova che avevano allestito il loro campo sopra quello di Katale. I testimoni di Geova sono stati particolarmente bersagliati dal precedente governo per il loro rifiuto di imbracciare le armi e di prendere parte a raduni politici”.
Tornata in Ruanda, Francine poté assistere all’assemblea di distretto che si tenne a Nairobi, dove trasse conforto dopo la morte del marito e fu incoraggiata dalla compagnia dei fratelli. Francine riprese poi a lavorare presso l’ufficio traduzioni, che nel frattempo era stato riaperto a Kigali. In seguito sposò Emmanuel Ngirente, con il quale continua a prestare servizio alla filiale.
Come fece Francine a mantenere la stabilità emotiva durante la guerra? Dice: “In quei giorni pensavamo a una cosa sola: perseverare sino alla fine. Eravamo decisi a non soffermarci sulle cose terribili che stavano accadendo. Ricordo che mi confortavano le parole di Abacuc 3:17-19, dove si parla di provare gioia anche in situazioni difficili. Anche i compagni di fede mi erano di grande conforto. Alcuni mi scrivevano lettere. Questo mi aiutava a vedere le cose da un punto di vista spirituale e positivo. Tenevo presente che Satana ha a sua disposizione tutta una serie di stratagemmi. Se ci facciamo distrarre troppo da un problema, potremmo non vederne un altro. Se non stiamo attenti, potremmo indebolirci in un modo o nell’altro”.
-
-
RuandaAnnuario dei Testimoni di Geova del 2012
-
-
Circa 400 testimoni di Geova furono vittima del genocidio, inclusi degli hutu che furono uccisi per aver protetto i loro fratelli e le loro sorelle tutsi. Nemmeno un Testimone perse la vita per mano dei suoi compagni di fede.
-