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    Ausiliario per capire la Bibbia
    • ad ‘arricchire’ il suo popolo (I Sam. 2:7) e che la Legge datagli era incomparabile in quanto ad assicurare il benessere di tutti.

      Che la prosperità di Israele inducesse altri popoli a glorificare Geova è illustrato nel caso del re Salomone. All’inizio del suo regno, quando ebbe l’opportunità di chiedere a Geova quello che voleva, non chiese grande ricchezza, ma chiese sapienza e conoscenza per giudicare la nazione. Geova accolse la richiesta di Salomone e gli diede anche “ricchezze e possedimenti materiali e onore”. (II Cron. 1:7-12; 9:22-27) Di conseguenza la fama relativa alla sapienza e ricchezza di Salomone finì per essere collegata col nome di Geova. Avendo sentito parlare di Salomone e quindi di Geova, la regina di Saba per esempio venne da un paese lontano per vedere se le notizie relative alla sua sapienza e prosperità erano vere. (I Re 10:1, 2) Ciò che vide la indusse a riconoscere l’amore di Geova per Israele. — I Re 10:6-9.

      Essendo una nazione prospera, gli israeliti potevano mangiare e bere a sazietà (I Re 4:20; Eccl. 5:18, 19) e la loro ricchezza serviva a proteggerli dai problemi della povertà. (Prov. 10:15; Eccl. 7:12) Ma anche se era in armonia col proposito di Geova che gli israeliti avessero prosperità grazie al loro duro lavoro (confronta Proverbi 6:6-11; 20:13; 24:33, 34), egli li fece pure avvertire del pericolo di dimenticare lui, la Fonte della loro ricchezza, e di cominciare a confidare nei possedimenti materiali. (Deut. 8:7-17; Sal. 49:6-9; Prov. 11:4; 18:10, 11; Ger. 9:23, 24) Fu ricordato loro che la ricchezza era solo temporanea (Prov. 23:4, 5), non si poteva offrirla a Dio come riscatto per liberare qualcuno dalla morte (Sal. 49:6, 7) e per i morti non era di alcuna utilità. (Sal. 49:16, 17; Eccl. 5:15) Fu spiegato loro che attribuire eccessiva importanza alla ricchezza poteva portare a compiere azioni fraudolente e a incorrere nel disfavore di Geova. (Prov. 28:20; confronta Geremia 5:26-28; 17:9-11). Furono inoltre incoraggiati a ‘onorare Geova con le loro cose di valore’. — Prov. 3:9.

      Naturalmente la prosperità della nazione non significava che ogni singolo individuo fosse ricco o che chi aveva pochi mezzi avesse per forza la disapprovazione di Dio. Avvenimenti imprevisti potevano gettare alcuni nella povertà. (Eccl. 9:11, 12) La morte poteva lasciare dietro di sé orfani e vedove. Incidenti e malattie potevano impedire in modo temporaneo o permanente di svolgere il lavoro necessario. Quindi gli israeliti erano incoraggiati a usare generosamente la propria ricchezza per prestare aiuto ai poveri e agli afflitti in mezzo a loro. — Lev. 25:35; Deut. 15:7, 8; Sal. 112:5, 9; Prov. 19:17; vedi POVERTÀ.

      RICCHEZZA FRA I SEGUACI DI CRISTO GESÙ

      A differenza dei patriarchi e della nazione di Israele, i seguaci di Gesù Cristo avevano l’incarico di ‘fare discepoli delle persone di tutte le nazioni’. (Matt. 28:19, 20) Per assolvere questo incarico ci volevano tempo e sforzi che altrimenti avrebbero potuto giustamente essere rivolti a imprese secolari. Perciò chi continuava ad aggrapparsi alla propria ricchezza invece di liberarsi di un peso per poter impiegare tempo e risorse ad assolvere questo incarico non poteva essere un discepolo di Gesù, né avere la prospettiva della vita nei cieli. Per questo il Figlio di Dio disse: “Come sarà difficile per quelli che hanno denaro entrare nel regno di Dio! Infatti, è più facile a un cammello passare per la cruna di un ago da cucire che a un ricco entrare nel regno di Dio”. (Luca 18:24, 25) Gesù fu indotto a pronunciare queste parole dalla reazione di un giovane signore ricco a cui aveva detto: “Vendi tutte le cose che hai e distribuiscile ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; e vieni, sii mio seguace”. (Luca 18:22, 23) Quel giovane signore ricco aveva l’obbligo di aiutare altri israeliti bisognosi. (Prov. 14:21; 28:27; Isa. 58:6, 7; Ezec. 18:7-9) Ma la sua riluttanza a usare la propria ricchezza per aiutare altri e così rendersi libero per essere seguace di Gesù Cristo gli impedì di aver accesso al regno dei cieli.

      I seguaci di Cristo non dovevano tuttavia ridursi in uno stato di povertà e quindi farsi mantenere da altri. Anzi dovevano lavorare sodo per poter provvedere alla propria famiglia e anche avere “qualche cosa da distribuire a qualcuno nel bisogno”. (Efes. 4:28; I Tess. 4:10-12; II Tess. 3:10-12; I Tim. 5:8) Dovevano accontentarsi di avere nutrimento e di che coprirsi, senza cercare di arricchire. Chiunque si preoccupasse prima di tutto di attività materiali rischiava di venire coinvolto in azioni disoneste e di perdere la fede per aver trascurato le cose spirituali. Questo è accaduto effettivamente a qualcuno, come mostrano le parole di Paolo a Timoteo: “Quelli che hanno determinato d’arricchire cadono in tentazione e in un laccio e in molti desideri insensati e dannosi, che immergono gli uomini nella distruzione e nella rovina. Poiché l’amore del denaro è la radice di ogni sorta di cose dannose, e correndo dietro a questo amore alcuni sono stati sviati dalla fede e si sono del tutto feriti con molte pene”. — I Tim. 6:9, 10.

      Naturalmente quello che Gesù disse al giovane signore ricco non significa che un cristiano non possa essere ricco. Nel I secolo E.V. per esempio cristiani facoltosi facevano parte della congregazione di Efeso. L’apostolo Paolo non disse a Timoteo di consigliare a quei fratelli ricchi di rinunciare a tutte le cose materiali, ma scrisse: “A quelli che sono ricchi nel presente sistema di cose dà ordine di non essere di mente altera, e di riporre la loro speranza non nelle ricchezze incerte, ma in Dio, che ci fornisce riccamente ogni cosa per il nostro godimento; di fare il bene, d’esser ricchi di opere eccellenti, d’esser disposti a dare, pronti a condividere, tesoreggiando sicuramente per se stessi un eccellente fondamento per il futuro, onde afferrino fermamente la vera vita”. (I Tim. 6:17-19) Quindi quei cristiani facoltosi dovevano badare al loro modo di vedere le cose, tenendo la ricchezza al giusto posto e servendosene generosamente per aiutare altri.

      MAMMONA

      Generalmente si ritiene che il termine mamonàs nella lingua originale (o “Mammona” nella forma italianizzata) significhi denaro o ricchezza. (Matt. 6:24; Luca 16:9, 11, 13; confronta NM, Ri, VR). Non c’è alcuna prova che questo termine sia mai stato il nome di una particolare divinità. Gesù lo usò per spiegare che non si può essere schiavi di Dio e della ricchezza. (Matt. 6:24) Esortò gli ascoltatori: “Fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze ingiuste, affinché, quando queste verranno meno, essi vi ricevano in dimore eterne”. (Luca 16:9) Poiché il possesso o il desiderio di ricchezze materiali può portare ad azioni illegali, a ragione si potevano definire “ricchezze ingiuste”, in contrasto con le ricchezze spirituali. Inoltre la ricchezza materiale, specie il denaro, in realtà appartiene ed è sotto il controllo di “Cesare”, che emette il denaro e gli attribuisce un particolare valore. Tale ricchezza è transitoria, essendo soggetta a oscillazioni economiche, e il suo possesso è legato alle circostanze. Quindi chi possiede ricchezze del genere non dovrebbe confidare in queste, né usarle come il mondo in generale per fini egoistici, come quello di ammassare ricchezza ancora maggiore. (I Cor. 7:31) Dovrebbe piuttosto essere desto e diligente nel farsi amici i possessori delle dimore eterne.

      I possessori delle “dimore eterne” sono Geova Dio e suo Figlio Cristo Gesù. (Confronta Giovanni 6:37-40, 44). Coloro che non usano nel modo dovuto le proprie “ricchezze ingiuste” (per esempio assistendo quelli nel bisogno e promuovendo la diffusione della “buona notizia” [Gal. 2:10; Filip. 4:15]) non potrebbero mai essere amici di Dio e di suo Figlio Cristo Gesù. La loro infedeltà nell’uso delle ricchezze ingiuste dimostrerebbe che non si possono affidare loro ricchezze spirituali. (Luca 16:10-12) Persone del genere non potrebbero mai essere buoni economi dell’immeritata benignità di Dio, che dispensino ad altri ricchezza spirituale. — I Piet. 4:10,11.

  • Ricompra, ricompratore
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    • Ricompra, ricompratore

      Il termine ebraico go’èl, che ricorre per la prima volta in Genesi 48:16 (‘colui che libera’), assunse col tempo il significato di “congiunto col diritto di ricomprare (o redimere)”; cioè di liberare, redimere o ricomprare la persona, la proprietà o l’eredità del parente più stretto; veniva pure applicato al vendicatore del sangue. Il parente più stretto che aveva l’obbligo di agire quale ricompratore lo era evidentemente in quest’ordine: (1) fratello, (2) zio, (3) figlio di uno zio, (4) qualunque altro parente consanguineo di sesso maschile. — Lev. 25:48, 49; confronta l’ordine in Numeri 27:5-11; vedi VENDICATORE DEL SANGUE.

      Sotto la legge mosaica, se un israelita, a motivo delle circostanze economiche, si era venduto schiavo, il ricompratore poteva ricomprarlo liberandolo dalla schiavitù. (Lev. 25:47-54) Oppure se aveva venduto la sua eredità terriera, il ricompratore poteva ricomprare la proprietà, ed egli poteva rientrarne in possesso. (Lev. 25:25-27) Comunque nessuna cosa dedicata o votata alla distruzione, neanche una vita umana, poteva essere ricomprata. — Lev. 27:21, 28, 29.

      GEOVA QUALE RICOMPRATORE

      Col sacrificio del suo unigenito Figlio, Geova quale Ricompratore ha provveduto alla liberazione del genere umano dal peccato e dalla morte e dal potere della tomba. Il Figlio dovette venire sulla terra, divenire “simile ai suoi ‘fratelli’ sotto ogni aspetto”, essere di sangue e carne, e quindi stretto parente del genere umano. (Ebr. 2:11-17) L’apostolo Paolo scrive ai cristiani: “Mediante lui abbiamo la liberazione per riscatto per mezzo del suo sangue”. — Efes. 1:7; confronta Rivelazione 5:9; 14:3, 4; vedi RISCATTO.

  • Riconciliazione
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    • Riconciliazione

      Riconciliare significa ristabilire l’armonia o un rapporto amichevole; anche sanare o comporre divergenze. In greco i termini che hanno relazione con la riconciliazione derivano dal verbo allàsso, che fondamentalmente significa “mutare, cambiare”. — Rom. 1:23; confronta Atti 6:14; I Corinti 15:51; Galati 4:20.

      Quindi la forma composta katallàssoi, pur avendo fondamentalmente il significato di “cambiare”, finì per significare “cambiare l’inimicizia di una persona in amicizia, riconciliare”. Paolo usò questo verbo parlando di una donna che doveva ‘riconciliarsi’ col marito dal quale si era separata. (I Cor. 7:11) Il verbo affine diallàsso ricorre in Matteo 5:24 nell’insegnamento di Gesù che bisogna ‘far pace’ col proprio fratello prima di presentare un’offerta sull’altare.

      RICONCILIAZIONE CON DIO

      La riconciliazione con Dio è necessaria perché si è creata una frattura, una separazione, mancanza di armonia o di rapporti amichevoli, addirittura uno stato di inimicizia. Questo è avvenuto a motivo del peccato del primo uomo Adamo e della conseguente peccaminosità e imperfezione ereditata da tutti i suoi discendenti. (Rom. 5:12; confronta Isaia 43:27). L’apostolo poteva quindi dire che “rivolgere la mente alla carne significa inimicizia con Dio, poiché essa non è sottoposta alla legge di Dio, né, infatti, può esservi [a motivo della natura peccaminosa, imperfetta ereditata]. Quindi quelli che sono in armonia con la carne non possono piacere a Dio”. (Rom. 8:7, 8) Esiste inimicizia perché le norme perfette di Dio non consentono che egli approvi o condoni la trasgressione. (Sal. 5:4; 89:14) Del Figlio suo, che rifletteva in modo perfetto le qualità del Padre, è scritto: “Hai amato la giustizia e hai odiato l’illegalità”. (Ebr. 1:9) Perciò, anche se “Dio è amore” e se “Dio ha tanto amato il mondo [del genere umano] che ha dato il suo unigenito Figlio” a favore di questo, resta il fatto che il genere umano nel suo insieme è in uno stato di inimicizia con Dio e che l’amore di Dio è stato un amore nei confronti di nemici, un amore dettato da principi (gr. agàpe) più che da tenerezza o amicizia (gr. philìa). — I Giov. 4:16; Giov. 3:16; confronta Giacomo 4:4.

      Poiché la norma di Dio è una norma di perfetta giustizia, egli non può tollerare o considerare con favore il peccato, che è la violazione della sua espressa volontà. Dio è “clemente e misericordioso”, e “ricco in misericordia” (Sal. 145:8, 9; Efes. 2:4); ma non mostra misericordia senza tener conto della giustizia.

      La base della riconciliazione

      Solo mediante il sacrificio di riscatto di Cristo Gesù è possibile la piena riconciliazione con Dio; egli è “la via” e nessuno ha accesso al Padre se non per mezzo di lui. (Giov. 14:6) La sua morte servì come “sacrificio propiziatorio [gr. hilasmòs] per i nostri peccati”. (I Giov. 2:2; 4:10) Il sostantivo hilasmòs significa “mezzo per placare”, “espiazione”. Chiaramente il sacrificio di Gesù Cristo non era un “mezzo per placare” nel senso di blandire i sentimenti di Dio che erano stati offesi, addolcendolo, poiché la morte del suo diletto Figlio non poteva certo produrre un effetto del genere. Piuttosto quel sacrificio placava o soddisfaceva le esigenze della perfetta giustizia di Dio provvedendo la base equa e giusta per perdonare il peccato, affinché Dio potesse essere “giusto anche quando dichiara giusto l’uomo [per eredità peccatore] che ha fede in Gesù”. (Rom. 3:24-26) Fornendo il mezzo per espiare (o scontare completamente) le azioni illegali e i peccati dell’uomo, il sacrificio di Cristo propiziò (favori) da parte dell’uomo la ricerca e il conseguimento di giuste relazioni col Sovrano Dio. — Efes. 1:7; Ebr. 2:17; vedi RISCATTO.

      In tal modo, per mezzo di Cristo, Dio rese di nuovo possibile “riconciliare a sé tutte le altre cose facendo la pace mediante il sangue che [Gesù] sparse sul palo di tortura”, e perciò coloro che un tempo erano estranei e nemici avendo la mente volta a opere malvage potevano ora essere ‘riconciliati mediante il corpo carnale di lui per mezzo della sua morte, per presentarsi santi e senza difetto e non esposti a nessuna accusa dinanzi a Dio’.

  • Ricino
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      Vedi ZUCCA.

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