Operazioni in acque ristrette
Dal corrispondente di “Svegliatevi!” in Nuova Zelanda
È PRESTO e la luce del giorno non si è ancora fatta strada attraverso le acque calme del porto di Auckland, mentre una figura solitaria cammina lungo il molo verso la lancia in attesa. Quando sale a bordo, il capitano della lancia dice: “La stazione di segnalazione ha comunicato proprio ora che la nave è a nove miglia al largo della boa di entrata. È meglio che ci muoviamo”. Con un rombo soffocato dei motori diesel, la lancia del pilota parte nell’oscurità.
Con il suo equipaggio di tre persone, la pilotina avanza lungo il canale fino in prossimità della boa di accesso all’entrata del porto. È un’imbarcazione robusta, lunga una ventina di metri e capace di superare le dieci miglia all’ora. “Ora posso vedere le sue luci”, dice il capitano della pilotina, e un messaggio per radiotelefono conferma che la scaletta per il pilota sarà sul lato sinistro della nave, che, stanotte, è il lato sottovento. (Il lato sottovento è l’opposto di quello sopravvento, esposto al vento e alle onde).
La notte è calma, con un po’ di mare lungo, e ben presto si può discernere la sagoma scura di una grande nave da carico, sotto le sue luci di navigazione. Subito la pilotina le si affianca silenziosamente. Le due navi stanno ancora avanzando alla velocità di cinque o sei nodi (o miglia nautiche all’ora) quando il pilota sale sulla scaletta di corda sospesa dal bordo della nave e inizia una salita che può essere lunga da tre a nove metri o anche più. Col radiotelefono portatile chiede al marinaio della lancia sotto di lui di “non dimenticare di mandare su la posta”, che è issata lungo la fiancata con un cavetto leggero. Nella maggioranza dei porti è tradizione che sia il pilota a portare la posta destinata all’equipaggio.
Non sempre l’imbarco del pilota del porto avviene in queste condizioni ideali. Nelle burrasche, con mare grosso, ci vuole un notevole grado di abilità marinaresca per scegliere il momento giusto per saltare dal ponte della pilotina, che sale e scende, alla scaletta.
Il terzo ufficiale e un abile marinaio aiutano il pilota del porto a scavalcare il bordo e lo scortano al ponte di comando. Il ponte e la timoniera sono al buio, così da non disturbare la vista di quelli che sono di servizio, ma una faccia illuminata dalla luce della chiesuola (la custodia che protegge la bussola) è quella dell’uomo al timone, il timoniere di manovra, come viene di solito chiamato sulle navi mercantili. Sta seguendo la rotta che gli è stata data dal comandante della nave. Il pilota ora avanza verso una figura silenziosa che sta in piedi davanti al parabrezza e guarda in avanti. Si presenta a questa figura indistinta, il comandante o capitano della nave, e i due si stringono la mano.
Passaggio di consegne
Il comandante è greco, e ha portato la sua nave fino alla Nuova Zelanda attraverso il Capo di Buona Speranza. Parla correntemente l’inglese, così che, in questo caso, non hanno difficoltà a comunicare. Ma nelle più di duemila navi che impiegano il pilota nel porto di Auckland ogni anno, è rappresentata praticamente ogni nazione marittima: Russia, Scandinavia, America, Inghilterra, Giappone e molte altre.
Questa nave ha incontrato tempo cattivo nella Gran Baia Australiana, dopo aver navigato verso est attraverso l’Oceano Indiano meridionale. Il comandante pensa che vi sia stato qualche danno all’argano, il congegno per alzare o gettare le ancore. “Se è necessario usare l’ancora”, dice il comandante al pilota, “usi solo l’ancora di dritta, per piacere. Il nostro pescaggio è di quasi 10 metri a poppa e di quasi 9 metri a prua, all’incirca. L’apparato motore è diesel, a una sola elica . . . un po’ lento nell’inversione di moto, ma non prevedo grossi problemi . . . la nave, di solito, governa bene con questo assetto. Che cosa mi può dire delle formalità doganali e sanitarie? Non sono mai stato in questo porto prima d’ora”.
Con queste informazioni la nave viene consegnata al pilota, che, in questo caso, è assolutamente sconosciuto al comandante, e anzi, appena visibile nell’oscurità della timoniera. Tanto grande è la fiducia nata dalla tradizione e da una notevole armonia nei regolamenti internazionali e nel codice di comportamento fra uomini di mare.
“Alla via così!” dice il pilota al timoniere, intendendo continuare sulla stessa rotta. E: “Avanti a forza normale!” dice poi al terzo ufficiale, che è rimasto sul ponte e il cui compito d’ora in avanti è di registrare tutti gli ordini dati dal pilota alla macchina, nel caso di qualche successivo incidente.
Manovra della nave
La nave sta ora entrando nel canale, e la boa foranca o di entrata è vicina, sul lato sinistro. “Tutto a sinistra!”, dice il pilota al timoniere. L’uomo risponde ripetendo l’ordine e girando simultaneamente la ruota a sinistra finché è possibile. In realtà ha azionato così una grande macchina collegata con il timone, che ha girato il timone della nave a sinistra. Solo sulle navi molto piccole un apparato azionato a mano è sufficientemente forte da girare il timone. Questa nave è lunga 168 metri e, con questo pescaggio, ha un dislocamento di circa 25.000 tonnellate: se ricordiamo il principio di Archimede, ciò equivale al peso della nave e di ogni cosa in essa. Al principio lentamente, la nave risponde all’azione del timone. Cosa interessante, una nave ruota su un punto situato a circa un terzo della sua lunghezza a partire dalla prua, così che la poppa sta spostandosi su un’area racchiusa entro il perimetro di un cerchio il cui raggio, nel caso di questa nave, è di quasi 116 metri. Questo fatto non è sempre compreso dai proprietari di piccole imbarcazioni da diporto che si trovano in vicinanza di transatlantici. Queste imbarcazioni dovrebbero sempre tenersi bene al largo da navi in manovra, specialmente quando girano.
Mentre la direzione della nostra nave cambia, e si avvicina a quella nella quale vogliamo andare, il pilota dice di togliere timone fino a 5 gradi a sinistra, e poi, dopo una pausa, dice: “Timone al centro!” Il timone è ora in linea con la nave e, benché essa continui ad accostare a sinistra, il movimento è rallentato; all’ordine successivo: “Alla via così!” il timoniere gira il timone nell’altro senso per arrestare l’accostata e infine mette la nave sulla nuova rotta. Frattanto, ci stiamo spostando verso acque poco profonde, e ogni reazione della nave deve essere accuratamente sorvegliata. Sotto di lei vi è ora solo poco più di un metro di acqua, giacché è bassa marea. Siamo in acque ristrette perché il canale si restringe. Vi sono luci “di guida” attraverso le quali bisogna passare, e non è prudente deviare troppo dalla stretta linea indicata.
Le luci di una nave diretta al largo appaiono sullo sfondo delle luci della città, e occorre fare grande attenzione agli ordini al timone, giacché le due navi passano a meno di novanta metri l’una dall’altra. In queste situazioni, c’è sempre il rischio di una collisione per disattenzione, per qualche difetto meccanico o per una troppo lenta reazione della nave. Stiamo tenendo una velocità di circa quindici nodi, all’incirca la stessa della nave in uscita. È una nave cisterna, parzialmente scaricata, ma piena di gas di petrolio, e pericolosa. Se avvenisse una collisione a queste velocità sommate fra loro, le conseguenze per le persone e le cose potrebbero essere disastrose. La maggior parte di noi ha visto i risultati di collisioni frontali fra veicoli a motore del peso di una sola tonnellata o poco più. Anche se viaggiano ambedue a cento chilometri all’ora, le velocità sommate producono un impatto che è solo una minima parte di quello di grandi navi che vengono in collisione anche a bassissime velocità. Purtroppo, questi disastri non sono sconosciuti nei porti del mondo. Uno simile accadde nel 1974 nella baia di Tokyo, in Giappone, quando una nave da carico liberiana di 10.874 tonnellate entrò in collisione con una nave cisterna da 43.000 tonnellate, incendiandola. In questo incidente perirono venti marinai del cargo e cinque della nave cisterna.
Il nostro pilota ha dato ora molti diversi ordini e si è tenuto in contatto con la stazione di segnalazione. È informato circa la disponibilità di rimorchiatori, gli orari del porto, l’arrivo di funzionari, i tempi di ormeggio, e così via. Nel frattempo ha ordinato di mettere le macchine prima a “mezza forza” e poi “adagio” e, infine, “adagissimo”, mentre stiamo avanzando verso il porto interno. Sta ora sorgendo il giorno, e il comandante della nave che, naturalmente, è sempre stato presente, viene tenuto al corrente degli avvenimenti.
L’ormeggio
Le operazioni sanitarie e di sdoganamento sono state espletate dai rispettivi funzionari che sono saliti a bordo a mezzo di lance. Il primo ufficiale a prua e il secondo ufficiale a poppa sovrintendono alle operazioni di ormeggio e di rimorchio con i rimorchiatori. L’ordine è ora di procedere “avanti adagio”, seguìto da appropriati ordini al timone e istruzioni ai rimorchiatori per radiotelefono mentre la nave viene manovrata in posizione adatta per accostarsi alla banchina assegnata. Mentre il pilota usa una strategia che utilizza timone, macchine, azione di rimorchiatori e condizioni di marea, basata sull’addestramento e sull’esperienza, nonché sulla familiarità con la località e la situazione, l’operazione potenzialmente rischiosa è presto conclusa, i cavi di ormeggio vengono mandati a terra e la nave è sicuramente ormeggiata. “Ormeggiate così!” ha detto il pilota, e poi: “Macchine libere!”, e siamo arrivati a destinazione. Un viaggio è stato completato, e ora la nave diventa compito degli stivatori e degli altri interessati al carico.
Per molti anni i grandi transatlantici inglesi, statunitensi, italiani, tedeschi e francesi hanno superato in dimensioni e in potenza ogni altra cosa galleggiante. Erano le più grandi cose mobili mai costruite dall’uomo. Queste navi avevano raggiunto un massimo per tonnellaggio nella “Queen Elizabeth”, per velocità nella “United States”, e per lunghezza nella “France”. La “France”, per esempio, è lunga 316 metri, quasi un terzo di chilometro. Queste navi enormi erano regolarmente guidate da piloti nei porti di ambedue i lati dell’Atlantico. Ma mentre la corsa dei “traghetti” dell’Atlantico diminuiva di importanza, alcune di queste navi trovavano la loro strada in un gran numero di altri porti del mondo, da Rio a Long Beach, dall’Oriente alla Nuova Zelanda. E nel far ciò portavano a termine le loro visite senza incidenti, sotto la sicura guida di piloti di numerose nazionalità. Benché solo nel diciannovesimo secolo siano state superate le dimensioni dell’Arca, lunga circa 137 metri, i transatlantici sono stati eclissati durante l’ultimo decennio da gigantesche petroliere, alcune delle quali possono trasportare fino a 500.000 tonnellate e, quando sono cariche, hanno un pescaggio superiore a 21 metri.
Perché i piloti sono necessari
Le navi delle nazioni marittime ancora trovano la loro rotta attraverso i grandi oceani e i mari aperti soprattutto per mezzo del sestante, della bussola e del cronometro, e per mezzo della posizione del sole, della luna e delle stelle. Ma nelle acque ristrette di porti, bracci di mare e canali, le navi che solcano i mari hanno bisogno di un diverso tipo di conoscenza nautica, quella di uno specialista che conosca le condizioni locali del porto o della zona nella quale è autorizzato a operare. Come pilota del porto dovrebbe essere in grado di manovrare una nave da, a, e attraverso vari luoghi non familiari al suo comandante, e portarla fino all’ancoraggio, alla boa o alla banchina, secondo le necessità.
In una forma o in un’altra i piloti sono esistiti nelle operazioni marittime fin dai tempi più antichi, ma il loro riconoscimento ufficiale compare per la prima volta nei Decreti Reali inglesi che costituivano corporazioni o associazioni di marinai muniti di opportuni poteri e privilegi. Gli antichi decreti mettevano in particolare evidenza la necessità di impedire che “persone avventate e inesperte” imponessero i loro servigi a ingenui marinai provenienti dall’alto mare e in ansiosa ricerca di un sicuro ancoraggio. Evidentemente in quel periodo ci dev’essere stata una reale necessità di proteggere i capitani delle navi da vagabondi sedicenti piloti e da persone non qualificate. L’attività del pilota o “lodesman”, come era chiamato talvolta, non era scevra da rischi, visto che il “libro nero” dell’Ammiragliato Britannico dice che “se una nave si perde per colpa del pilota, i marinai possono, se lo desiderano, portarlo all’argano di prua o in altro luogo e tagliargli la testa, senza che i marinai ne debbano rispondere davanti ad alcun giudice”.
Benché vi siano oggi molte leggi internazionali che regolano la navigazione marittima, non vi è alcun codice uniforme per tutte le nazioni che definisca i rapporti legali fra pilota e comandante, né la questione del pilotaggio obbligatorio. Comunque, prevale l’opinione che il pilota è solo un consigliere del comandante della nave, e che questi non cede mai il comando della nave a un’altra persona.
I piloti del porto sono i primi a salire a bordo delle navi in arrivo e gli ultimi a lasciare quelle in partenza. Spesso sono i primi ad avere notizia di sciagure e sono quelli che possono condurre in porto navi danneggiate o mal ridotte dall’impatto del cattivo tempo o di una collisione. E alcuni piloti hanno condotto fino al mare aperto navi che si sono perdute prima di raggiungere il loro porto successivo.
Il pilota ha un ruolo vitale nel dramma senza fine del mare. Ogni giorno e ogni notte, nei porti e nei canali e nei fiumi del mondo grandi eliche di bronzo e di ferro rimescolano le spumeggianti scie attraverso “acque ristrette”, condotte da queste guide nautiche che con il loro lavoro contribuiscono alla sicurezza di vite e proprietà marittime.