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  • Attraverso l’Atlantico sul papiro

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Svegliatevi! 1970
g70 8/11 pp. 13-17

Attraverso l’Atlantico sul papiro

Dal corrispondente di “Svegliatevi!” in Danimarca

“UN PAGLIAIO navigante”, “un cigno di carta”, “un nido d’uccello galleggiante”. Questi furono alcuni dei nomi che vennero dati a una strana barca messa in mare da un porto marocchino il 17 maggio dello scorso anno. Non somigliava a nessuna imbarcazione che conosciamo comunemente. Tuttavia, il suo padrone, l’etnologo Thor Heyerdahl, famoso capitano della spedizione Kon-Tiki di circa venti anni fa, intese avventurarvisi in mare aperto. Infatti, aveva predisposto di attraversare l’Atlantico e di andare nell’America Centrale, facendo un viaggio di 6.000 chilometri!

Ciò che suscitò il dubbio in molti circoli scientifici fu la specie primitiva del bastimento. Era stato costruito quasi interamente con canne di papiro, che facevano ricordare le imbarcazioni antiche usate nel fiume Nilo al tempo dei Faraoni. Ma perché Heyerdahl scelse tale strana barca? Che cosa avrebbe compiuto con tale sua impresa?

L’enigma dell’America Centrale

La sua mira era quella di fare un po’ di luce su una questione molto dibattuta, cioè: C’è una relazione fra la civiltà degli antichi paesi mediterranei e le civiltà che gli Spagnoli trovarono quando giunsero nell’America Centrale quattrocento o cinquecento anni or sono? Il soggetto ha tenuto occupati molti studiosi.

I conquistatori o “conquistadores” spagnoli che attraversarono l’oceano seguendo la scia di Colombo trovarono qualche cosa di più che nomadi primitivi. Vi trovarono capaci scribi, architetti, artisti, astronomi e chirurghi in città ben organizzate, amministrate da re-sacerdoti adoratori del sole. Questi avevano un sistema di calendario più accurato di quello usato in Europa. I loro chirurghi erano in grado di sanare fratture, imbalsamare morti, compiere operazioni al cervello. C’erano strade selciate, enormi acquedotti e impressionanti ponti sospesi. C’erano monumenti piacevolmente scolpiti, piramidi e altre magnifiche costruzioni.

Di quell’avanzata civiltà rimangono ora solo delle rovine. Gli avidi conquistatori europei saccheggiarono e predarono le città, resero schiavi gli abitanti che non furono massacrati perché si rifiutarono di accettare la religione cattolica. I re-sacerdoti e i loro eserciti si arresero praticamente a un pugno di soldati spagnoli. Perché? Essi avevano una tradizione secondo cui “gli uomini bianchi con la barba” dall’altra parte dell’oceano avevano portato loro una volta la civiltà, e ora pensavano che questa nuova ondata di uomini bianchi pure venissero come amici.

Fu semplicemente una questione di coincidenza che il popolo dell’America Centrale avesse piramidi, mummie, operazioni al cervello, adorazione del sole e re-sacerdoti, esattamente come li ebbero gli antichi Egiziani? Oppure li avevano perché quella tradizione indiana si basava sul fatto, e “gli uomini bianchi con la barba” avevano attraversato l’oceano seguendo le correnti transatlantiche che cominciano al largo della costa nordafricana?

“Proprio nel ventesimo secolo”, scrive Thor Heyerdahl, “era una teoria accettata che ci fosse una sola culla della civiltà, che non fu lontana dai paesi biblici, da dove la civiltà si diffuse attraverso continenti e oceani in ogni parte del mondo”. Il racconto del libro biblico di Genesi dice che le prime comunità si stabilirono dopo il Diluvio in Mesopotamia, regione fra i fiumi Tigri ed Eufrate, e che di lì il genere umano si disperse in “tutta la superficie della terra”. — Gen. 10:8-12; 11:8.

Critica della scienza

Gli antropologi di mente critica furono subito contrari a questa veduta. Considerarono la Bibbia come “troppo vecchia” per avere qualche valore scientifico rispetto alla storia passata. Influenzati dalla teoria dell’evoluzione, considerarono che la cultura dell’America Centrale si fosse sviluppata indipendentemente. Sostennero che la stretta relazione fisica e mentale fra tutte le specie di uomini li avrebbe fatti reagire in modo simile in condizioni simili. Colombo, essi credettero, fu il primo ad andare in America separatamente dai primitivi immigranti che dalla Siberia attraversarono lo Stretto di Bering. Così si evolse ciò che fu considerato un “indiscutibile fatto scientifico”.

Passarono alcuni decenni e questo “fatto scientifico” cominciò a crollare. Altri scienziati produssero l’evidenza per mostrare che l’Atlantico era stato attraversato molto tempo prima di quello di Colombo. Fra l’altro, c’era la colonia vichinga di Terranova. Il “solido fatto scientifico” di ieri è smascherato dunque oggi come un’imbastita speculazione priva di fondamento.

Gli esperti scientifici pure asserirono che il viaggio attraverso l’oceano non si poteva fare in barche fatte di canne o papiro, come quelle usate anticamente dagli Egiziani. Gli egittologi erano dell’opinione che quelle navi di canne potevano usarsi solo in un fiume, e non avrebbero resistito all’urto del movimento oceanico. Si asserì anche che il papiro si sarebbe inzuppato d’acqua marina e avrebbe cominciato a rovinarsi in meno di due settimane.

Ma Thor Heyerdahl non si fece impressionare da tutta la critica scientifica. Egli credeva di poter dimostrare che tali teorie moderne erano sbagliate. In realtà, aveva ragione di diffidare delle “autorità”.

Le “autorità” possono sbagliare

Prima di salpare dall’America Meridionale per la Polinesia sulla famosa zattera di balsa Kon-Tiki, nel 1947, tutti gli “esperti” furono dell’opinione che le antiche civiltà d’America non dessero impulso alle isole del Pacifico per mezzo delle loro zattere di balsa e delle loro barche di canna. Nel 1943, J. E. Weckler scrisse che gli Indiani d’America non avevano navi che solcassero i mari per fare il viaggio in Polinesia. La stessa veduta poteva leggersi in un libro di testo scritto dall’esperto polinesiano, Sir Peter Buck, due anni dopo. E sembrava che questo autore avesse informazioni dal suo collega dott. Kenneth P. Emory, amministratore del Museo Vescovile nelle Hawaii.

Nel 1942 Emory aveva abbandonato l’idea che gli antichi Americani avessero qualche contatto con la Polinesia. Perché? Perché un altro collega l’aveva informato che la zattera di balsa s’inzuppa subito di acqua. Egli, a sua volta, aveva tratto le sue informazioni da un saggio scritto da uno specialista sudamericano dove si affermava che il legno di balsa perde la sua galleggiabilità in maniera completa dopo alcune settimane.

Lo specialista aveva ottenuto le sue informazioni dalla narrazione dei viaggi di un Inglese il quale, circa un secolo fa, aveva visto una zattera di balsa al largo della costa sudamericana. Il capitano della nave che portava questo viaggiatore gli aveva detto che in poche settimane il legno di balsa ‘perse molto della sua galleggiabilità’. Non si sa da dove il capitano prendesse le sue informazioni. Le sue parole furono accettate, e, dice Heyerdahl, mentre “numerosi insegnanti trasmettevano ciò che sapevano senza dichiararne nemmeno la fonte, la dottrina divenne un assioma”.

Ciò nondimeno, Heyerdahl percorse 5.000 miglia su una zattera di balsa, e il “fatto scientifico” del tutto inventato venne smascherato per quello che era. C’era buona ragione per credere che gli scienziati fossero tutti sviati anche in quanto all’uso delle imbarcazioni di papiro. Sebbene negassero che una barca di canne potesse tenersi a galla per più di due settimane, risultò che nessuno di questi “esperti” egittologi aveva mai visto una barca di papiro nella realtà.

Navi di canna

Navi costruite con canne erano usate dagli Indiani d’America lungo la costa del Pacifico dalla California al Cile al tempo dell’arrivo degli Spagnoli. Tali imbarcazioni erano usate anche in parecchi laghi messicani. Simili tipi erano comuni “dall’Iraq all’Etiopia, attraverso l’Africa Settentrionale e Centrale fino a Ciad, Niger e Marocco, e pure in Sardegna”. — Hjemmet, 2 dicembre 1969, pag. 7.

Quando gli Spagnoli giunsero alla costa peruviana videro molti battelli fatti di sottili canne, legate in fasci, con prue e poppe elegantemente curve, alquanto simili alle navi degli antichi Vichinghi. Alcune erano abbastanza larghe da accogliere un equipaggio di ventiquattro persone, e dalla costa percorrevano facilmente il mare lungo il litorale dell’Impero Incaico.

“I vasi peruviani”, scrive Heyerdahl, “dal tempo anteriore agli Inca hanno spesso raffigurazioni di barche di canne a due ponti con molti passeggeri e carico. Nel lago Titicaca si costruiscono ancora barche di canna abbastanza grandi da trasportare bovini, anche col temporale. Nelle escursioni con Indiani di montagna mi fece molta impressione la capacità delle barche di trasportare materiale”. Anche nell’isola di Pasqua, al largo del Pacifico, le raffigurazioni di barche di canna con alberi e vele si sono trovate su monumenti di pietra.

Non tutti convengono che le barche di canne fossero confinate alla navigazione fluviale nella zona mediterranea e più a oriente. Il libro The Story of the First Ships dice: “Le navi di legno non esisterono nell’antico Egitto fin dopo che i Faraoni cominciarono a ottenere provviste di legname. Il mare Mediterraneo era attraversato da intraprendenti marinai in barche fatte di papiro coperte di bitume”. E l’autore romano, Plinio il Vecchio, narra di viaggi fra il Gange e Ceylon, che di solito richiedevano circa venti giorni, “compiuti da navi di papiro con attrezzatura del Nilo”.

Era evidente che le navi di papiro solcavano i mari e potevano resistere all’urto del vento e delle onde. Se tale imbarcazione poteva navigare per più di due settimane sulle onde dell’Atlantico, credeva Heyerdahl, l’esperimento avrebbe pure dimostrato la possibilità che i marinai mediterranei raggiunsero l’America molto prima che vi arrivasse Colombo influendo sullo sviluppo della sua cultura.

Costruzione della barca di canna

Le raffigurazioni dei vasi egiziani furono studiate nei musei di tutto il mondo. Il dott. Bjorn Landstrom, esperto svedese di disegni di navi egiziane, andò al Cairo per copiare le raffigurazioni delle barche di canna dei Faraoni. Da questi modelli fu costruita l’imbarcazione.

I materiali furono provveduti dall’Etiopia. Nell’insieme, dodici tonnellate di steli secchi di papiro, lunghi da due metri e settanta centimetri a quattro metri e cinquanta centimetri, furono trasportate sui monti fino al luogo della costruzione dietro le piramidi nel deserto egiziano. Il papiro fu legato in fasci con chilometri di corda, e si diede loro la forma adeguata.

Quando fu completata aveva la lunghezza di circa quindici metri e una larghezza di circa cinque metri. Il fondo era spesso un metro e mezzo. A metà della nave era una cabina a forma di cesto che serviva da capanna per l’equipaggio di sei persone oltre allo stesso Heyerdahl. Al doppio albero maestro alto nove metri e settantasei centimetri fu legata una vela di cotone trapezoidale marrone con un disco solare arancione. Alla nave fu dato il nome del dio-sole egiziano, Ra.

La spedizione

L’incomparabile nave fu trasportata al porto marocchino di Safi, il porto più occidentale noto agli antichi Egiziani. Dopo una settimana nel porto, la “Ra” fu portata a rimorchio nella corrente delle Canarie, che l’avrebbe sospinta verso occidente. Ecco il racconto di Heyerdahl circa quanto accadde in seguito:

“I fasci di papiro ondeggiarono come cavi di gomma sulle onde. Spessi remi si ruppero come fiammiferi, ma non si ruppe un solo stelo di papiro. . . . Gli steli di papiro erano solidi come le fibre di bambù e resistenti come funi. Passarono tre settimane. Passarono quattro settimane. Presto avevamo navigato per un tratto più lungo che dall’Egitto a Creta, alla Grecia, all’Italia, sì, più che a qualsiasi distanza entro il mare Mediterraneo. [E assai più lontano di quanto le “autorità” avevan creduto che potessero andare!] Le onde ancora venivano mugghiando contro di noi. . . . ma il papiro rimaneva ugualmente forte e resistente. Dopo sei settimane avevamo navigato quanto da Copenaghen al Polo Nord”.

Ma, come narrarono in seguito le notizie, la barca incontrò il centro di una tempesta a est delle Antille, e del papiro cominciò a sciogliersi a dritta dove il pavimento della capanna aveva consumato le corde che legavano gli steli di papiro. L’albero fu rotto dalla tempesta. Alcuni giorni dopo Thor Heyerdahl e il suo equipaggio furono costretti a lasciare la barca di papiro perché la presenza dei pescicani rese impossibile all’equipaggio l’ulteriore riparazione. Erano stati nell’Atlantico cinquantadue giorni, avevano navigato per 3.125 miglia ed erano solo a 600 miglia circa dalle Barbados nelle Indie Occidentali.

L’esperimento non fallì

Un più attento esame di tutti i fatti rivelerà che nonostante il naufragio l’esperimento non fallì. Heyerdahl fu abbastanza soddisfatto d’aver avuto “sufficiente prova che una barca di papiro è un’imbarcazione che può navigare nel mare”. Inoltre per il naufragio addusse la ragione che egli e il suo equipaggio “avevano fatto tanti fasci quanti ne può fare solo un uomo moderno quando vuole costruire una nave antica senza istruttori”.

Un professore d’università italiano fu della stessa opinione. Egli disse: “L’imbarcazione fu costruita con una poppa troppo bassa. Gli Egiziani si rifiutarono dapprima di costruire la poppa della Ra, e la bassa poppa che infine fu costruita è una delle ragioni per cui la nave fu presto rotta dal mare grosso. Un’altra ragione è l’insolito cattivo tempo che la spedizione dovette affrontare”.

Si dimostrò che le fragili navi di papiro usate dai popoli mediterranei potevano ben attraversare l’Atlantico, sia di proposito che trasportate dalla tempesta, venendo a contatto con i nativi dell’America Centrale. Poté anche accadere che alcuni di tali visitatori rimanessero abbastanza a lungo da insegnare ai nativi alcune delle loro arti e mestieri e idee religiose.

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