Referendum per il divorzio in Italia
“CREDEVO che piovesse — ha detto il cardinale — ma non che diluviasse”. Questo fu il commento del cardinale Poletti dopo il successo dei “No” nella città di Roma, dove hanno votato migliaia di religiosi, commento riportato dal quotidiano milanese Il Giorno del 16 maggio 1974.
“La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana . . . non può non manifestare il suo profondo rammarico per il definitivo venir meno nella legislazione civile del modello naturale e cristiano, umanamente validissimo, di matrimonio indissolubile e di famiglia stabilmente unita”. — L’Osservatore Romano del 15 maggio 1974.
“Ciò è per noi motivo di stupore e di dolore, anche perché a sostegno della tesi, giusta e buona, dell’indissolubilità del matrimonio è mancata la doverosa solidarietà di non pochi membri della comunità ecclesiale”, disse Paolo VI nell’udienza generale del 15 maggio 1974. — L’Osservatore Romano del 16 maggio 1974.
Questi sono stati alcuni dei primi commenti delle autorità della Chiesa Cattolica Romana dopo i risultati del referendum popolare indetto per l’abolizione del divorzio, introdotto per legge in Italia il 1º dicembre 1970. Chiamato alle urne il 12 e il 13 maggio 1974 per decidere se abrogare o no la legge sul divorzio, il popolo italiano ha espresso la sua scelta dicendo “No” all’abrogazione con una percentuale del 59,1 per cento.
L’esito del referendum, comunque, va al di là della semplice scelta se mantenere in vigore una legge come quella sul divorzio oppure no. Lo scarto di sei milioni di votanti a favore del divorzio è ben più significativo. Perché? Per comprenderlo è necessario esaminare la recente storia delle relazioni fra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica Romana.
Prima del divorzio
L’11 febbraio 1929 l’allora governo fascista stipulò con lo Stato del Vaticano un accordo che poneva termine a un periodo di lotte fra lo stato e la chiesa, che durava da quando fu presa la città di Roma nel 1870. Questo accordo prese il nome di Concordato o Conciliazione e i patti scambiati tra le parti si chiamarono “patti lateranensi”, dal luogo dove vennero stipulati, S. Giovanni in Laterano a Roma.
La propaganda fascista definì vantaggiosi i patti lateranensi. Comunque, la storia e la realtà ben presto mostrarono chi in realtà aveva concluso un buon affare. Lo Stato del Vaticano, infatti, si limitava a riconoscere solo lo Stato Italiano, la cui indipendenza era stata proclamata sin dal 1861. In cambio, otteneva una serie di privilegi che mettevano la Chiesa in una posizione di preminenza. Il clero cattolico poté così beneficiare di privilegi, come l’assistenza finanziaria da parte dello Stato, l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche e l’esenzione fiscale. Poté inoltre inserirsi in posizioni di rilievo, contribuendo a rendere più stabile l’allora governo di Mussolini.
Per quanto riguarda l’istituto del matrimonio, il Concordato ne sancì la superiorità religiosa. Cominciò tuttavia a delinearsi un contrasto di competenze legislative. Mentre da una parte il riconoscimento degli effetti civili al matrimonio religioso e la rilevanza costituzionale attribuita ai patti lateranensi dall’articolo 7 della Costituzione italiana costituirono un grave ostacolo all’introduzione del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano, dall’altra la Chiesa Cattolica Romana si attribuì la prerogativa dell’annullamento del matrimonio. Ufficialmente essa sostiene che il matrimonio è un legame indissolubile che solo la morte può sciogliere. Ma ha facilmente aggirato l’ostacolo dottrinale dell’indissolubilità del legame matrimoniale sostenendo che non si può sciogliere ciò che non è mai stato legato. Se, dunque, si asseriva che al momento del matrimonio esistevano da parte dei coniugi vizi o mancanze tali che secondo il diritto canonico rendevano nulla l’unione matrimoniale, la Chiesa aveva la facoltà di annullare tale unione senza ledere l’indissolubilità del matrimonio. In tal modo, chi si sposava civilmente non poteva divorziare, mentre chi contraeva un matrimonio religioso poteva ottenere dalla Chiesa l’annullamento del suo matrimonio e contrarre un nuovo matrimonio. Il tribunale ecclesiastico che ha tale competenza si chiama Sacra Romana Rota.
Naturalmente, i matrimoni religiosi così annullati erano sciolti anche a ogni effetto civile. Lo Stato Italiano si limitava pertanto a prendere atto dell’avvenuto annullamento del matrimonio. A motivo dell’alto costo della pratica, solo un esiguo numero di persone aveva la possibilità di far annullare il proprio matrimonio. Si trattava generalmente di attori dello schermo e del teatro, senatori, deputati, industriali, ecc.
Questo stato di cose indusse perciò molti — si parla di 5 milioni di persone — a convivere in uno stato di più o meno risaputo concubinato. Diede pure luogo a molteplici difficoltà, non ultime l’impossibilità da parte del padre di riconoscere legalmente i figli nati da tale convivenza e la mancanza di assistenza sanitaria.
Consci delle esistenti irregolarità in fatto matrimoniale e volendo sanare tali convivenze nella legalità, in tempi diversi, alcuni parlamentari presentarono al Parlamento proposte di legge per il divorzio. Dal 1873 furono presentate ben 12 proposte di legge, ma solo quelle presentate dai deputati Fortuna e Baslini, in seguito unificate, ebbero esito positivo quando, il 1º dicembre 1970, divennero legge dello Stato.
La legge sul divorzio
La legge sul divorzio, suddivisa in 12 articoli, permette ora di legalizzare le unioni irregolari che rispondono alle esigenze della legge stessa. Essa richiede infatti che i coniugi che intendono divorziare abbiano ottenuto la separazione almeno 5 anni prima — nel caso in cui uno dei coniugi si opponga alla concessione del divorzio, gli anni possono divenire 6 o 7 — dopo di che è consentito l’inoltro della domanda di divorzio. Il giudice tenterà la riconciliazione. Se questa fallisce, allora il tribunale procede, concedendo il divorzio. Sono previste particolari disposizioni per l’assistenza ai figli e alla moglie e per la disciplina dell’aspetto patrimoniale della famiglia. Secondo una statistica, da quando la legge andò in vigore fino al tempo del referendum, su un totale di 92.188 domande presentate, i divorzi concessi furono 66.641.
Il referendum
Una volta introdotto l’istituto del divorzio, presero forma anche le forze di opposizione che, essendosi dall’inizio opposte alla presentazione del progetto di legge sul divorzio, pensarono ora di passare a una opposizione più vasta e concreta chiedendo l’intervento del popolo italiano. Allora si pensò di indire un referendum popolare, promosso principalmente dal leader cattolico antidivorzista Gabrio Lombardi, affinché tutti avessero la possibilità di esprimersi. In tal modo, i gruppi antidivorzisti speravano di far annullare la legge sul divorzio che non erano riusciti a bocciare in Parlamento. Il referendum fu avversato da più correnti politiche che temevano fosse causa di crisi politica e motivo di rottura delle alleanze politiche così duramente perseguite. Ciò nonostante, il referendum fu indetto e fissato per i giorni 12 e 13 maggio 1974. Oltre 32 milioni di Italiani furono invitati alle urne.
La battaglia per il referendum, dapprima alquanto attenuata, scoppiò con improvvisa violenza poche settimane prima della data stabilita per le votazioni. Furono impiegati abbondanti mezzi e furono fatti notevoli sforzi da parte dei partiti politici e degli oratori ufficiali per dare ai votanti un certo indirizzo. Il timore di pericolosi sbandamenti a destra o a sinistra nella politica italiana indusse i partiti politici a impegnarsi come non mai in questa lotta. Ma ciò che si temeva accadde. Si produsse una netta divisione nel quadro politico che vide schierati da una parte il partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, e la coalizione Destra Nazionale col Movimento Sociale Italiano, antidivorzisti; e dall’altra tutti gli altri partiti, fra i quali primeggiavano, per impegno e consistenza politica, il partito comunista e quello socialista.
Furono fatte accuse di politicizzare il referendum, di voler creare una crisi di governo e di agire per rafforzare ulteriormente le posizioni dei partiti di sinistra.
Ma che cosa accadeva intanto all’interno della Chiesa Cattolica Romana? Quale posizione assumeva essa nei riguardi del referendum e dell’istituto matrimoniale? Erano le varie forze laiche e clericali concordi nella loro direttiva?
Atteggiamento della Chiesa
Il pensiero ufficiale della Chiesa fu espresso da una Notificazione sul referendum emanata il 23 febbraio 1974 dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI). Con essa i vescovi intesero “offrire il servizio di orientamento dottrinale e di indicazioni pastorali ai fedeli . . . per aiutarli a prendere una decisione giusta e serena”. Come asserì ulteriormente il cardinale Ugo Poletti in un suo documento illustrativo, la notificazione insegnava che “ogni vero matrimonio è indissolubile” e che il cristiano ha il diritto e il dovere di servirsi di tutti i mezzi legittimi (incluso il referendum) allo scopo “di proporre e di difendere una legislazione che tuteli l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia”, e definiva “un grave danno per il bene comune” la legge Fortuna–Baslini sul divorzio. Essa incoraggiò inoltre i vescovi italiani a sollecitare “tutti i credenti e gli uomini di buona volontà ad assumere un libero e responsabile impegno di coscienza nel difendere l’indissolubilità del matrimonio”. — L’Osservatore Romano del 1º maggio 1974.
Questo stesso giornale, in data 2 maggio 1974, precisò che il principio dell’indissolubilità del matrimonio, naturale o religioso, è da considerarsi una vera e propria “verità di fede”. In precedenza, il prof. Gabrio Lombardi aveva sottolineato che “non si tratta, dunque, di difendere una concezione religiosa del matrimonio, ma l’indissolubilità del matrimonio come istituto naturale”. — L’Osservatore Romano del 25-26 marzo 1974.
Opinioni contrastanti fra i cattolici
Quando la notificazione della CEI fu diramata dai vescovi ai sacerdoti locali perché la leggessero in chiesa ai loro parrocchiani, questo diede luogo a molteplici e non sempre obiettive interpretazioni e a crescente opposizione. Un membro permanente della CEI, mons. Gaetano Bonicelli, che si era dichiarato “per il giusto rispetto della libertà di coscienza”, affermò in un’altra occasione che “i cattolici, o meglio quanti si proclamano tali, se voteranno a favore del mantenimento della legge sul divorzio, non potranno considerarsi ‘cattolici’”. In una lettera “riservata” inviata a tutti i parroci della diocesi di Genova, il cardinale Giuseppe Siri ricordò che “votare per l’abrogazione del divorzio è obbligo di coscienza”, riferisce il settimanale L’Europeo del 25 aprile 1974. D’altra parte, mons. Manfredini, segretario della Commissione Famiglia della CEI, in un’intervista riportata da L’Osservatore Romano del 19 aprile 1974, aveva dichiarato che la Chiesa non intendeva perseguire “nessun altro scopo che la responsabilizzazione dei cristiani e delle persone oneste e in buona fede” e che era sua intenzione “aiutarle a giudicare la questione con vera libertà di coscienza”. Egli aggiunse: “I Vescovi non intendono imporre nulla a nessuno”. Prelati come Pellegrino a Torino, Baldassarri a Ravenna, Del Monte a Novara, e altri, hanno assunto posizioni sfumatamente intermedie.
Queste e altre evidenti contraddizioni in ciò che poteva essere il pensiero della Chiesa produssero non poche fratture; ciò accadeva non solo all’interno della gerarchia cattolica, ma anche nelle file del clero e dei laici.
In una chiesa di Mantova un gruppo di fedeli abbandonò la chiesa durante la celebrazione della messa allorché l’officiante iniziò la lettura della notificazione del vescovo sul referendum. Ai fedeli che abbandonarono la chiesa si unì un giovane prete operaio. In molte altre città, come a Genova, avvennero manifestazioni di aperto dissenso contro la propaganda antidivorzista svolta nelle chiese. Altrove invece, come a Milano, ci furono parroci che preferirono non leggere la notificazione ai fedeli. Riguardo a questi avvenimenti, è interessante quanto osservò una cattolica: “Questo referendum, anziché dividere i cattolici dai nemici del cattolicesimo, sta lacerando profondamente, e forse irreparabilmente, il mondo della Chiesa. I promotori del referendum se ne rendono conto?”
Numerosi sacerdoti si fecero portavoce del dissenso. Quarantaquattro sacerdoti veneti, ad esempio, in un documento diretto ai vescovi e ai sacerdoti di quella regione, espressero la loro intenzione di votare contro l’abrogazione del divorzio. Nel suo documento Il mio regno non è di questo mondo, l’abate benedettino Giovanni Battista Franzoni negò al magistero ecclesiastico il diritto di interferire in materie profane e dimostrò che, in contraddizione col principio della presunta indissolubilità sempre e a ogni costo, la Chiesa ammette di fatto il divorzio vero e proprio col famoso “privilegio paolino” (secondo cui un convertito già sposato validamente, solo per il fatto che si è convertito e non vuole essere infastidito dal coniuge non cristiano a causa della sua nuova fede, può validamente sposarsi di nuovo).
In un articolo pubblicato il 25 aprile 1974, L’Osservatore Romano dovette infine ammettere che “cattolici colti e persino sacerdoti giovani e meno giovani, contestano e rifiutano apertamente le direttive impartite dall’Episcopato italiano”.
Si profilava così all’orizzonte la possibilità di una guerra di religione. Il sacerdote David M. Turoldo avvertì: “E, se non stiamo attenti, rischiamo di trovarci tutti nell’occhio del tifone, anche senza volerlo”. Ma oramai il dissenso sul referendum era entrato in chiesa. A nulla servirono le minacce di sanzioni rivolte ai cattolici dissenzienti, in particolare agli appartenenti al clero. Qualche sacerdote, come l’oramai famoso abate Franzoni, fu sospeso a divinis, cioè dall’esercizio delle funzioni religiose. Tuttavia, questi provvedimenti non valsero a nulla.
Com’è considerata l’ingerenza del clero
A tutto ciò si aggiunsero le rimostranze delle varie correnti politiche per l’ingerenza della Chiesa in materia di referendum. Il quotidiano socialista Avanti! la considera “una pesante interferenza nelle questioni interne dello Stato italiano”. Per L’Unità, comunista, la “mobilitazione del clero” è “un inammissibile intervento nella sfera civile”, mentre La voce repubblicana asserì che la “guerra di religione” era già stata dichiarata “da chi ritiene che l’uomo vada guidato per mano anche nella sua vita più intima”.
Poco prima della data del referendum, nella città di La Spezia la locale associazione dei radicali denunciò alla pretura cinque parroci che avevano affisso e distribuito nelle chiese materiale propagandistico contenente chiari inviti a votare a favore dell’abrogazione della legge sul divorzio. Riferendo la notizia, il Corriere della sera del 12 maggio 1974 indicò che la denuncia era stata esposta in base all’articolo 98 del decreto del Presidente della Repubblica del 30 marzo 1957, “espressamente richiamato dalla legge 25 maggio 1970 sul referendum che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni per quei ministri del culto che ‘abusando delle proprie attribuzioni si adoperano a vincolare suffragi’”.
Tutti questi avvenimenti portarono all’attesa data del 12 maggio. Quale sarebbe stato infine il risultato del referendum?
Il risultato
Il referendum popolare diede ragione ai divorzisti. Diciannove milioni di votanti dissero “No” all’abrogazione della legge sul divorzio. Ciò provocò non poca costernazione tra gli antidivorzisti che probabilmente non si attendevano una così schiacciante sconfitta. Quanto ai capi religiosi della Chiesa Cattolica, la loro delusione fu evidente allorché, attraverso la radio e la stampa vaticana, fecero i primi commenti sull’esito del referendum. Papa Paolo espresse rammarico per l’atteggiamento tenuto in questa occasione da “non pochi membri della comunità ecclesiale”. Pare, infatti, che per le autorità ecclesiastiche un tale esito del referendum fosse del tutto inatteso. Esse contavano sull’appoggio della cosiddetta “maggioranza silenziosa” dei cattolici. Ma tale “maggioranza silenziosa” si rivelava “largamente minoritaria”.
Quali ulteriori conseguenze recheranno questo referendum e il suo risultato è qualcosa che si potrà meglio valutare in futuro.
Comunque, è interessante il fatto che la vittoria dei divorzisti ha ora aperto la via ad altri referendum popolari. I partiti divorzisti stanno infatti raccogliendo le firme (ne occorrono almeno 500.000 per indire un referendum) perché il popolo italiano abbia la possibilità di esprimere il proprio parere, come ha fatto nel caso della legge sul divorzio, in almeno altri 8 referendum, uno dei quali riguarda il Concordato tra la Chiesa e lo Stato italiano.
Intanto, si calcola che il referendum sul divorzio sia costato allo Stato italiano 90 miliardi di lire.
Che dire dei cristiani testimoni di Geova? Quale atteggiamento biblico ebbero in questa lotta per l’abrogazione del divorzio? Essi si mantennero neutrali, riconoscendo al governo italiano il diritto di stabilire le sue proprie leggi, anche in materia matrimoniale. Dimostrarono così di lasciare “a Cesare le cose di Cesare”. — Matt. 22:21. Da un collaboratore.