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  • Vivere col morbo di Parkinson

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  • Vivere col morbo di Parkinson
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Svegliatevi! 1988
g88 8/1 pp. 12-15

Vivere col morbo di Parkinson

SE INCONTRASTE mia madre oggi per la prima volta, probabilmente non vi accorgereste che ha il morbo di Parkinson. Anche se a volte i sintomi sono evidenti, riesce ancora ad andare a fare la spesa, a pulire la casa e a svolgere quasi tutte le normali attività della vita quotidiana.

Poco più di 12 anni fa, comunque, le cose erano diverse. Avevo appena saputo che a mia madre avevano diagnosticato questa malattia. Desideravo farle visita, ma non volevo arrivare disinformato. Così, prima di mettermi in viaggio, lessi parecchio materiale su questo disturbo. Ciò nonostante non ero preparato a quello che vidi.

La donna energica che ricordavo si muoveva come un automa. Teneva le braccia rigide, vicino ai fianchi, le dita diritte in modo innaturale. Sebbene diritta com’era sempre stata, camminava a piccoli passi, strascicando i piedi e con un’angosciosa lentezza che celava l’energia che io sapevo aveva dentro. Fu vedendo il suo viso, però, che sentii un tuffo al cuore. Era come una maschera: rigido, inespressivo. Sorrideva, ma solo con la bocca. Lo sguardo era vuoto.

La mamma mi disse che c’erano voluti due anni perché le facessero la diagnosi corretta e aveva dovuto consultare vari medici. Come accade a molti, i sintomi iniziali erano stati ambigui: forti dolori alle giunture e ai muscoli e difficoltà anche solo a lavarsi i capelli e i denti. Quando i sintomi divennero regolari, cominciò ad avere difficoltà a girarsi nel letto e mio padre doveva aiutarla. Camminare le divenne più difficile. Anche se amava impegnarsi attivamente nel ministero cristiano, spesso riscontrava di non riuscire neppure a parlare chiaramente e dovette ridurre le sue attività.

Sconvolto da ciò che vidi, cominciai a fare ricerche in merito. Cosa provoca questo disturbo? Si può guarire? Potevo soffrirne anch’io un giorno? Chi ne è affetto può condurre una vita attiva?

Appresi ben presto che un sorprendente numero di persone contrae il morbo di Parkinson: una ogni 150-200! Secondo l’Associazione americana per il Morbo di Parkinson, ci sono da un milione a un milione e mezzo di casi solo negli Stati Uniti. Fortunatamente, con le debite cure la maggioranza di questi malati riesce a tirare avanti abbastanza bene.

Che cos’è?

James Parkinson, da cui prese nome questa malattia, descrisse il disturbo nel 1817. La sua descrizione è ancor oggi sorprendentemente completa ed esatta: “Tremore involontario, con diminuita potenza muscolare, in parti non in movimento e anche quando sono sostenute; c’è la tendenza a curvare il tronco in avanti, e ad accelerare il passo fino a correre, mentre sensi e facoltà intellettuali restano intatti”.a

Fu l’ultima parte della descrizione a darmi grande sollievo: la mamma avrebbe conservato sia la sua intelligenza che i suoi sensi! Non avrebbe perso la facoltà di gustare cibi buoni, di provare diletto nella musica, di commuoversi o essere stimolata da una buona lettura, o di godere delle molte bellezze della creazione che ama tanto. L’assenza di movimenti spontanei e di reazioni che notavo non avevano nulla a che fare con la sua mente che era ancora molto sveglia.

All’inizio della sua descrizione, Parkinson menziona il “tremore involontario”. Questo tremore lento, ritmico, specie delle mani, è il sintomo che io e quasi tutti associamo al morbo di Parkinson, perché è il più evidente. Infatti, il nome clinico del morbo di Parkinson è paralisi agitante, proprio per questo tremore. La mamma, però, non aveva nessun sintomo di questo genere, né ce l’ha oggi. ‘Perché no?’, mi chiedevo. Il dott. Leo Treciokas, docente di neurologia all’Università della California (Los Angeles) mi spiegò che per qualche ragione sconosciuta una significativa percentuale di parkinsoniani non manifesta mai il sintomo del tremore. Per altri è il sintomo principale.

Tutti coloro che sono affetti da questo morbo, però, manifestano due altri sintomi e quasi sempre prima che insorga il tremore: la rigidità muscolare e ciò che si chiama acinesia, cioè l’abolizione o la riduzione dell’attività motoria volontaria o automatica. Ne risulta una lentezza di movimenti detta bradicinesia. Per alcuni neurologi le difficoltà a camminare e i problemi di equilibrio sono sintomi distinti ma tra i principali.

La rigidità deriva dal fatto che i muscoli si sfregano l’uno contro l’altro. Poiché i muscoli che fanno curvare il corpo sono più colpiti di quelli usati per farlo raddrizzare, il parkinsoniano finisce per assumere una posizione curva. Inoltre muscoli e articolazioni fanno molto male.

Questi sintomi sono aggravati dall’acinesia. Nelle persone sane i movimenti più elementari — alzarsi, camminare, girarsi, fermarsi e anche sorridere — sono accompagnati da tanti piccoli riflessi. Nei parkinsoniani, molti di questi riflessi mancano o richiedono uno sforzo cosciente. (Per questo la mamma appariva così inespressiva e meccanica). Inoltre, i movimenti brevi e alternativi, come quelli che si fanno per lavarsi i denti, sono difficili per loro. La calligrafia di solito diventa minuta e illeggibile dopo le prime poche parole. Hanno la tendenza a starsene seduti e a guardare fisso, muovendo gli occhi anziché la testa per guardare da un’altra parte. Eppure non sono né stupidi né pigri.

Insorge anche una notevole difficoltà nel camminare e nel mantenere l’equilibrio. Mia madre, come altri, deve fare diversi passettini prima di assumere un’andatura normale. La maggioranza cammina strascicando i piedi e molti sono affetti da festinazione, cioè la tendenza ad affrettare il passo. Essendo portati a piegarsi in avanti, i loro passetti diventano sempre più rapidi finché vanno quasi di corsa e cadranno se non possono aggrapparsi o se non li ferma qualcun altro. Anche quando riescono a controllare l’andatura, qualsiasi cosa faccia pensare a un cambiamento di equilibrio — un ostacolo che si para davanti, una scala mobile, perfino una linea sul pavimento — può far perdere loro l’equilibrio così che cadono oppure restano immobili.

Cosa si può fare

Questi sintomi scoraggianti non sono più così inabilitanti come lo erano fino a poco tempo fa. Infatti, grazie ai progressi compiuti dalla medicina negli ultimi 20 anni, i parkinsoniani possono ora condurre una vita del tutto produttiva nonostante il loro disturbo.

Dal momento che i sintomi sono causati da uno squilibrio nel cervello fra due sostanze chimiche dell’organismo, la dopamina e l’acetilcolina (vedi specchietto a pagina 15), in genere i medici cercano di ristabilire questo equilibrio. Come? Rifornendo il cervello di dopamina attraverso il sangue. Tuttavia, la dopamina non può attraversare la cosiddetta barriera ematoencefalica, per cui viene consumata nell’organismo. Ma un’altra sostanza, detta levodopa, o L-Dopa, può attraversarla. Si trasforma in dopamina col normale metabolismo, sia dentro che fuori il cervello.

Assunta da sola in dosi terapeutiche, la L-Dopa ha numerosi effetti collaterali. Questo perché gran parte d’essa si trasforma in dopamina prima di giungere al cervello. Per evitare questi effetti collaterali, vi si aggiungono degli inibitori.

È una terapia efficace? In molti casi sì. I principali sintomi inabilitanti del morbo di Parkinson (rigidità muscolare, acinesia, difficoltà a camminare e a mantenere l’equilibrio e a volte tremore) sono spesso alleviati, talora in modo notevole. Infatti i parkinsoniani possono avere ora la stessa probabile durata di vita di chiunque altro. Ma è una terapia con risultati del tutto soddisfacenti? Purtroppo no. Solo l’organismo sa esattamente quanta dopamina gli occorre e la può normalmente produrre nelle dosi richieste. La somministrazione per via orale non è altrettanto efficace.

Visto che alcuni hanno reazioni negative immediate alla L-Dopa e dal momento che la sua efficacia diminuisce col passare degli anni perfino nel caso di coloro che rispondono a questo tipo di cura, si impiegano anche altre cure.

Cosa può fare il paziente

Ma si può fare qualcos’altro? Sì, si possono fare alcune cose importanti. Una di queste è l’esercizio regolare. Poiché i movimenti sono difficili e spesso dolorosi, e l’equilibrio può essere un problema, chi è affetto dal morbo di Parkinson ha la tendenza a limitare notevolmente le sue attività. Senza esercizio, però, tutto peggiora. Muscoli e articolazioni diventano più rigidi. La circolazione sanguigna ne risente, e questo può portare ad altre malattie. Può manifestarsi la tendenza a chiudersi in se stessi e a finire per dipendere totalmente dagli altri.

Per queste ragioni i neurologi dicono che per star bene e conservare la mobilità è indispensabile un programma di esercizi regolari. Naturalmente è bene consultare il medico in ciascun caso. Ma, in genere, semplici esercizi quotidiani, come passeggiate di modesta lunghezza, nuoto e specialmente ginnastica medica, aiutano a mantenere i muscoli elastici e forti e il cervello in grado di adattarsi alle nuove condizioni chimiche.

Si può essere aiutati ad alleviare i problemi di coordinazione che il morbo di Parkinson provoca nel camminare, nel parlare e nello scrivere facendo uno sforzo cosciente. Pubblicazioni della Facoltà di Medicina dell’UCLA (Università della California) e dell’Associazione americana per il Morbo di Parkinson raccomandano in ciascun caso movimenti lenti e deliberati, che permettano ai centri motori superiori del cervello di imparare a compensare — almeno in una certa misura — i riflessi spontanei ora mancanti.

Cosa possono fare gli altri

Anche gli altri possono aiutare il paziente. Un manuale per le persone affette dal morbo (A Manual for Patients with Parkinson’s Disease) dà il seguente suggerimento per aiutare coloro che hanno difficoltà a camminare: “Una gentile offerta d’appoggio o il dare al paziente una mano a cui aggrapparsi può essere tutto ciò di cui egli ha bisogno per rimettersi in cammino. Il parkinsoniano dovrebbe sempre prendere la mano o il braccio che gli viene porto anziché essere ‘aiutato ad andare avanti’ perché molte volte perde l’equilibrio se gli si afferra improvvisamente la mano o il braccio”.

Particolarmente utile è l’incoraggiamento. La pubblicazione Principles of Internal Medicine (1983) di Harrison afferma: “I fattori emotivi influiscono notevolmente sulla gravità dei sintomi, che sono accentuati da ansia, tensione e infelicità, mentre sono alleviati quando il paziente è contento. . . . Il paziente ha spesso bisogno di molto appoggio morale per far fronte allo stress causato dalla malattia, per comprenderne la natura e per andare avanti coraggiosamente nonostante essa”. Pertanto l’amorevole considerazione, l’interesse e le parole rassicuranti sono di grande utilità per aiutare il parkinsoniano a vivere con la sua malattia.

La scienza medica non comprende ancora le cause di questa malattia e perciò non può offrire guarigione. Mia madre, tuttavia, è incoraggiata dal sapere che il Creatore le comprende e che sotto il suo Regno retto da Cristo Gesù provvederà tale guarigione. (Isaia 33:24; Luca 9:11; Rivelazione 21:1-4) Fino ad allora, lei e molti altri riescono a vivere abbastanza bene nonostante il morbo di Parkinson. — Da un collaboratore.

[Nota in calce]

a Secondo recenti studi, un blando deterioramento mentale è non di rado associato al morbo di Parkinson. Questa condizione di demenza può insorgere nonostante la terapia e può accentuarsi se appropriati stimoli mentali e conversazione vengono trascurati.

[Riquadro a pagina 14]

Per aiutare i parkinsonianib

◼ Le sedie dure, con lo schienale inclinato in avanti, vanno meglio di quelle basse, profonde e morbide.

◼ Un corrimano accanto al letto e accanto al gabinetto aiuta la persona ad alzarsi.

◼ Una corda attaccata all’estremità del letto può aiutare la persona a sedersi e a girarsi.

◼ Per fare la doccia può essere utile avere all’altezza della spalla un contenitore con le cose necessarie, oltre ad avere il sapone attaccato a una cordicella e una spugna con un manico.

◼ Nel vestiario, le chiusure fatte con strisce di Velcro sono più facili da usare di bottoni o chiusure lampo.

[Nota in calce]

b Come suggerisce l’opuscolo Aids, Equipment and Suggestions to Help the Patient With Parkinson’s Disease in the Activities of Daily Living, pubblicato dall’Associazione americana per il Morbo di Parkinson.

[Riquadro/Immagine a pagina 15]

Cosa causa il morbo di Parkinson?

Questo è ciò che i medici hanno cercato di sapere fino agli anni ’60. Anzi, la causa fondamentale è ancora sconosciuta, ma è stata trovata la causa dei sintomi.

Nel tronco cerebrale, più o meno all’altezza della parte superiore delle orecchie, c’è una placca di tessuto nervoso scuro detta substantia nigra. La substantia nigra fa parte di un sistema di feedback del cervello e produce un messaggero chimico per la trasmissione nervosa detto dopamina che viene usato in profondità nel cervello per regolare o facilitare i movimenti del corpo.

Nei parkinsoniani l’80 per cento o più di questo tessuto nervoso è andato distrutto. Mancando la dopamina, scompare anche il prezioso equilibrio con un altro neurotrasmettitore, l’acetilcolina. È questo che provoca i sintomi.

Perché la substantia nigra degeneri, e perché degeneri solo questa, è ancora un mistero. Evidentemente non è una malattia ereditaria, sebbene ci sia ora qualche prova che se ne può ereditare la predisposizione. In alcuni casi, i sintomi non sono affatto dovuti al morbo di Parkinson, ma a reazioni sfavorevoli a certi farmaci, come la reserpina e la fenotiazina, impiegate a volte per tenere sotto controllo l’ipertensione e gli squilibri mentali. Smettendo di prendere questi farmaci di solito si torna alla normalità. Altri casi recenti sono dovuti a nuovi farmaci che somigliano all’eroina e producono un effetto analogo. Quando sono state usate partite scadute di questi farmaci, essi hanno distrutto in modo irreversibile la substantia nigra in coloro che li hanno assunti, producendo una condizione che non si distingue dal vero morbo di Parkinson.

[Immagine]

Substantia nigra

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