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  • Missione suicida
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  • L’attacco suicida
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  • Trovo l’Iddio che è degno di fiducia
  • Da una missione di morte a un’opera pacifica
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Altro
Svegliatevi! 1991
g91 22/1 pp. 9-13

Missione suicida

ERA l’alba del 15 agosto 1945 e noi eravamo al largo, nel Pacifico meridionale. Ero in missione come membro dei Corpi di Attacco Speciale (suicida) con Kaiten, a bordo del sommergibile A-367. Quando via radio udimmo l’Imperatore annunciare la resa, rimanemmo tutti fermi ai nostri posti, come storditi. La guerra del Pacifico era finita.

Dieci giorni dopo eravamo di nuovo in Giappone. Quelli fra noi che avevano fatto della marina militare la propria carriera non riuscivano a capire perché altri marinai sembravano così felici di essere congedati, e per di più dopo aver perso la guerra! Come urtava vedere la gente gioire per la fine della guerra quando tanti giovani erano morti per la loro patria!

In missione

La mia mente riandò a quando, circa otto mesi prima, mi ero diplomato nelle accademie navali Antisommergibili e Sommergibili. Era il 25 dicembre 1944, e avevo appena ricevuto l’ordine di prestare servizio sul sommergibile A-367. Quando ci imbarcammo a Yokosuka, il giorno di Capodanno del 1945, avevamo l’ordine di partecipare a manovre di attacco speciale. “Attacco speciale” significava attacco suicida, proprio come i kamikaze dell’aviazione. Ci chiamavamo Squadra Shimbu dei Corpi di Attacco Speciale con Kaiten.

Per prima cosa facemmo rotta verso Kure, un grande porto vicino a Hiroshima dove furono apportate delle modifiche al sommergibile per alloggiarvi i kaiten. I kaiten erano siluri modificati con l’aggiunta di una minuscola cabina di manovra monoposto situata a metà siluro. Una volta che l’ordigno era stato lanciato dal ponte di coperta di un sommergibile, l’operatore lo pilotava fino a colpire il bersaglio, per cui era noto anche come siluro umano. Una volta lanciato, non c’era ritorno. Colpire il bersaglio significava morire da eroe. Mancarlo avrebbe significato morire da cane, come dicono i giapponesi quando si muore inutilmente.

Per noi, morire per la patria era un privilegio glorioso. Quando il comandante invitò i volontari a fare un passo avanti per diventare membri di squadre suicide, tutti si fecero avanti come un sol uomo. Anche se personalmente non ero un operatore di kaiten, l’intero equipaggio era considerato parte dei corpi di attacco suicida. Che onore!

Dopo essere stati addestrati al lancio dei kaiten, partimmo in missione con cinque kaiten sul ponte di coperta. Mentre navigavamo nel Mare Interno, diretti verso il Pacifico, stavo in piedi in coperta e ammiravo la bellezza dell’estate appena iniziata. Mi chiedevo dove sarebbero andati a finire quei cinque strumenti di morte, e mi si riaffacciavano alla mente ricordi dolci e amari del mio addestramento.

L’accademia

Sin da bambino volevo fare carriera nella marina militare, per cui non appena compii 18 anni, nel 1944, mi iscrissi all’Accademia Navale Mine. Nei primi due mesi imparammo le fondamentali tecniche di combattimento a terra e frequentammo un corso accelerato di Marina. Dopo ciò, la scuola cambiò nome e divenne l’Accademia Navale Antisommergibili. Cominciarono ad addestrarci all’uso di idrofoni e sonar, così da poterci spedire al fronte ben addestrati.

I primi due giorni di scuola fummo trattati come ospiti. Gli istruttori ci spiegavano con gentilezza ogni cosa che non capivamo. Poi, il terzo giorno, arrivò la prima “correzione”. Non appena l’ufficiale di guardia ebbe completato il giro di ronda, dopo che eravamo andati a letto, udimmo l’ordine di un istruttore: “Tutti in piedi! Tutti in fila sul ponte!” Non sapendo cosa fare, correvamo di qua e di là alla rinfusa. “Avanti! Muoversi! In riga!”, sbraitavano gli istruttori. Quando infine ci mettemmo in riga, ci dissero: “Avete tutti bisogno che vi si sollevi il morale”. E cominciarono le “correzioni”. In marina, “correzione” era sinonimo di botte. Per prima cosa ci fu detto di divaricare le gambe e di stringere i denti per non cadere né morderci le guance o la lingua. Poi volarono le sberle.

Le correzioni erano impartite sulla base della responsabilità collettiva. Se un membro di una divisione commetteva un errore, l’intera divisione riceveva una correzione. Spesso ci colpivano il fondoschiena con una specie di mazza da baseball, chiamata “il bastone per infondere lo spirito del soldato”. Le correzioni dovevano servire a creare lo spirito di gruppo, estremamente necessario in mare. Ogni volta che subivo una correzione mi chiedevo se essa mi sarebbe stata veramente d’aiuto nei combattimenti veri.

Dopo essermi diplomato all’Accademia Antisommergibili mi iscrissi all’Accademia Sommergibili. Ora ci insegnavano a stare dall’altra parte della barricata: attraverso lezioni e addestramento pratico imparavamo ad intercettare una nave di superficie da un sommergibile e attaccarla. Qui l’addestramento era anche più duro, e seguivamo il programma che la marina militare giapponese chiamava “lunedì-lunedì-martedì-mercoledì-giovedì-venerdì-venerdì”. In altre parole, non c’erano fine settimana liberi.

L’attacco suicida

“Abbiamo passato il Canale Bungo”. La potente voce proveniente dall’altoparlante mi distolse dai ricordi, riportandomi di colpo alla realtà. “Navigheremo in superficie fino a domattina. Ci aspettiamo che, come Squadra Shimbu dei Corpi di Attacco Speciale con Kaiten, portiate a termine questa missione. Fate del vostro meglio nei posti a voi assegnati”. La nostra missione consisteva nello stare in agguato per distruggere le navi sulle linee di rifornimento che univano Okinawa a Guam. Per quattro giorni ci immergemmo all’alba per tornare in superficie al crepuscolo.

Alle due del pomeriggio del quinto giorno i nostri strumenti segnalarono una sorgente sonora. Ci avvicinammo ad essa mantenendoci a una profondità di 14 metri, mentre osservavamo l’obiettivo attraverso il periscopio. D’un tratto, cominciarono a fioccare gli ordini.

“Tutti ai posti di combattimento!”

“Preparare i kaiten per il lancio!”

“Gli operatori ai loro posti!”

Quando gli operatori si precipitarono attraverso lo stretto corridoio, annodandosi al capo la fascia con il Sol Levante, i membri dell’equipaggio, addossati alle pareti, diedero loro l’addio con il saluto militare.

Gli operatori salirono di corsa la scaletta che portava al punto in cui, dall’interno del sommergibile, si accedeva agli abitacoli dei siluri. Poi, arrivati in cima alla scaletta, si girarono e, facendo il saluto militare, gridarono: “Grazie a tutti voi per esservi presi cura di noi. Ce la faremo!” Di sotto, tutti stavano in silenzio, coi volti irrigiditi.

“Tutti i kaiten pronti per il lancio!” L’ufficiale ripeté l’ordine del comandante con un fremito nella voce.

“Obiettivi: una grossa nave appoggio e un cacciatorpediniere”, dichiarò il comandante. “Il kaiten n. 1 è fuori uso. Perciò ad attaccare gli obiettivi saranno il n. 2 e il n. 3. Gli altri si tengano pronti”.

“Kaiten n. 2, via!”

“Kaiten n. 3, via!”

Si sentirono i tonfi delle cinghie metalliche che tenevano legati i kaiten e che ora erano cadute sul ponte. Uno strattone, e il kaiten n. 2 partì; prima ancora che il suo fragore si spegnesse, il n. 3 lo seguì. Per un attimo mi tornarono in mente i volti da ragazzo degli operatori. Mi concentrai sul mio lavoro di seguire i kaiten con gli idrofoni.

Qualcuno mormorò: “È quasi ora che colpiscano gli obiettivi”. I kaiten erano stati lanciati solo da 15 minuti, ma a noi sembrava che fosse passata un’ora o più. Poco dopo sentimmo un boato, subito seguito da un secondo.

“Il sottufficiale Chiba colpisce l’obiettivo!”

“Il sottufficiale Ono colpisce l’obiettivo!”

Il silenzio era assoluto. Nessuno fiatava. Alcuni congiunsero le mani in preghiera in direzione dell’esplosione. Tutti stavano in piedi, silenziosi, con il volto segnato dalle lacrime. Che calma incredibile dopo un risultato così brillante!

Nascosta tra i suoi effetti personali, trovammo una poesia d’addio scritta dal sottufficiale Ono, secondo l’usanza giapponese di scrivere una poesia quando si sa di dover morire. La poesia diceva: “Quando nell’antico Giappone fioriscono i ciliegi, e cadono i petali, questi finiscono negli abissi del mare”. Ono aveva 19 anni.

Incursione aerea!

Continuammo a rimanere appostati, immergendoci prima dell’alba e tornando in superficie dopo il tramonto. Dopo due settimane di ricerca infruttuosa, il comandante annunciò che saremmo tornati immediatamente a Kure. Tutto l’equipaggio era euforico. Mentre il sommergibile era all’ancora a Kure per delle riparazioni e per fare provviste, l’equipaggio si rilassava negli stabilimenti termali del posto.

Era il 15 giugno 1945. Eravamo ormeggiati al molo vicino all’arsenale, e ci stavamo preparando a partire per la prossima missione quando suonò la sirena dell’allarme antiaereo. Non c’era tempo per prepararsi. Un’imponente formazione di bombardieri B-29 stava scendendo verso l’arsenale. Saltai dal ponte di coperta sul molo per sciogliere gli ormeggi di prua. Gridai al sottufficiale Mohri, che era appena tornato, di sciogliere quelli di poppa. Il sommergibile si staccò subito dal molo, e noi rimanemmo a terra.

Cercammo riparo in un rifugio vicino al molo, ma era zeppo di operai dell’arsenale. Mentre stavamo in piedi all’entrata, cadde una bomba che ci scaraventò fuori. Pensando che era pericoloso rimanere lì, decidemmo di correre in una grotta scavata in una collina dietro l’arsenale. Notammo che fra un’ondata di bombardieri e la successiva c’era un intervallo di tre minuti. Non appena un gruppo di bombardieri passò, ci precipitammo allo scoperto e ci mettemmo a correre verso la collina. Nell’istante in cui raggiunsi la grotta una bomba esplose dietro di me, scaraventandomi all’interno. Fortunatamente, non fui ferito. Il sottufficiale Mohri, che mi seguiva, era invece scomparso. Non appena l’incursione aerea finì, tornai sui miei passi fino al molo, a cercarlo. La strada era crivellata dalle bombe. Cercai il mio camerata dappertutto, ma inutilmente.

Non avevo mai visto tanti morti e feriti. Percepii l’orrore e la futilità della guerra più intensamente che mai. Non potevano esistere né Dio né Budda, pensai. Se fossero esistiti, non avrebbero mai permesso tali atrocità.

Trovo l’Iddio che è degno di fiducia

Erano passati solo due mesi dall’incursione aerea quando dovetti accettare la sconfitta dell’impero giapponese, quel giorno d’estate, nel Pacifico meridionale. Svolsi qualche lavoro occasionale e poi, il 20 novembre 1945, tornai a casa. Due giorni dopo fui assunto dalle ferrovie giapponesi. Per i successivi 30 anni ho lavorato come controllore e capostazione in varie città dell’isola di Shikoku. Le mie esperienze di guerra mi avevano fatto diventare ateo.

Nel 1970 fui assegnato alla stazione di Sako, nella prefettura confinante, a tre ore di treno da casa mia. Facendo il pendolare, sul treno leggevo giornali e riviste. Ebbene, ogni mattina quando aprivo la valigetta trovavo La Torre di Guardia e Svegliatevi! in un angolo, in cima. Ce le metteva mia moglie, che era appena diventata testimone di Geova. All’inizio la cosa mi infastidiva, e buttavo le riviste sulla reticella portabagagli. Ce l’avevo con la religione ed ero molto contrario alla religione cristiana di mia moglie. “Non ti azzardare a rimettere un’altra volta quelle riviste nella mia valigetta”, le gridavo quando tornavo a casa. Ma il giorno dopo, le riviste erano di nuovo lì.

Un giorno vidi una persona prendere le riviste dalla reticella portabagagli e cominciare a leggerle. ‘Cosa ci troverà di tanto interessante?’, mi chiesi. Vidi ripetersi questa scena più volte, e allora un giorno, finito di leggere il giornale, cominciai a sfogliare con indifferenza La Torre di Guardia. Non riuscivo a capire bene quello che c’era scritto, ma trovai interessante la lettura di Svegliatevi! Fin dalla prima volta che le lessi, capii che quelle riviste avevano qualcosa di diverso, e da allora le ho sempre lette entrambe. Naturalmente, a motivo della mia posizione di oppositore non le leggevo a casa, ma un po’ alla volta cominciai a capire perché mia moglie usciva a predicare ogni giorno.

All’inizio del 1975 la mia salute cominciò a peggiorare, e nell’aprile di quell’anno andai in pensione. I medici mi riscontrarono un tumore alla faringe. Mentre ero all’ospedale, un Testimone mi fece visita e mi regalò la Traduzione del Nuovo Mondo delle Scritture Greche Cristiane e il libro È questa vita tutto quello che c’è? Mi stavo annoiando, e visto che la Bibbia era un regalo, ora avevo una scusa per leggerla apertamente.

Quando fui dimesso dall’ospedale, l’uomo venne subito a trovarmi. Le prime due volte chiacchierammo amichevolmente, scambiandoci solo esperienze di guerra. La terza volta, invece, mi offrì uno studio biblico, e io accettai. Dopo aver superato l’ateismo che era una conseguenza della guerra, alla fine mi battezzai a un’assemblea di distretto nel 1980. Da allora ho avuto il privilegio di servire altri, e recentemente sono stato nominato anziano nella nostra congregazione.

Ripensando al passato, capisco perché i capi politici e militari erano riusciti a indottrinare i giovani fino al punto di convincerli a immolarsi altruisticamente per la patria. Dallo studio della Parola di Dio, la Bibbia, ho capito che dietro a loro c’erano le potenti forze di Satana il Diavolo. Dietro l’isterismo di massa delle missioni suicide, ora riesco a intravedere il sadismo di Satana. Rivelazione 12:7-9, 12 lo prediceva: “E scoppiò la guerra in cielo: Michele e i suoi angeli guerreggiarono contro il dragone, e il dragone e i suoi angeli guerreggiarono, ma esso non prevalse, né fu più trovato posto per loro in cielo. E il gran dragone fu scagliato, l’originale serpente, colui che è chiamato Diavolo e Satana, che svia l’intera terra abitata; fu scagliato sulla terra, e i suoi angeli furono scagliati con lui. Per questo motivo rallegratevi, o cieli e voi che risiedete in essi! Guai alla terra e al mare, perché il Diavolo è sceso a voi, avendo grande ira, sapendo che ha un breve periodo di tempo”.

Per molto tempo la mia mente è stata accecata al punto di credere che le missioni suicide fossero un onore, ma ora capisco qual è la verità. So chi era responsabile della mia cecità. Lo spiega chiaramente l’apostolo Paolo in 2 Corinti 4:3-6: “Se, ora, la buona notizia che dichiariamo è infatti velata, è velata fra quelli che periscono, fra i quali l’iddio di questo sistema di cose ha accecato le menti degli increduli, affinché la luce della gloriosa buona notizia intorno al Cristo, che è l’immagine di Dio, non risplenda loro. Poiché noi predichiamo, non noi stessi, ma Cristo Gesù quale Signore, e noi stessi come vostri schiavi per amore di Gesù. Poiché fu Dio a dire: ‘Rifulga la luce dalle tenebre’, ed egli ha rifulso nei nostri cuori per illuminarli con la gloriosa conoscenza di Dio mediante la faccia di Cristo”.

La sensazione che si prova conoscendo la verità e il solo vivente e vero Dio si può paragonare a quello che provavamo quando emergevamo col sommergibile e, aperti i portelli, respiravamo a pieni polmoni l’aria fresca e pura. Nessuno avrebbe potuto apprezzare quella freschezza e quella purezza più di noi. Per questo ristoro spirituale sono profondamente grato a Geova. E sono grato anche a mia moglie che ha cercato instancabilmente di farmi apprezzare la verità della Bibbia. Essa ha perseverato per dieci anni senza arrendersi mai, finché alla fine mi sono dedicato a Dio. Come risultato, ora partecipo al ministero cristiano, una missione salvifica al servizio dell’Iddio vivente. — Narrato da Yoshimi Aono.

[Immagine a pagina 10]

Grazie agli instancabili sforzi di mia moglie, ora partecipo a una missione salvifica al servizio dell’Iddio vivente

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