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  • Qual è la causa del problema?

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  • Qual è la causa del problema?
  • Svegliatevi! 1987
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  • Crescente attrito negli scambi commerciali
  • Le contraccuse
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Svegliatevi! 1987
g87 22/8 pp. 5-7

Qual è la causa del problema?

“LE NAZIONI stanno giocando una rischiosissima partita geopolitica”, scriveva al principio di quest’anno il New York Times. Gli Stati Uniti avevano lasciato che il dollaro slittasse ulteriormente rispetto allo yen giapponese e al marco tedesco a causa del sempre crescente disavanzo commerciale. Il summenzionato articolo pertanto continuava: “Ognuno cerca di costringere gli altri a modificare la propria politica interna . . . per contribuire a rendere più equilibrati gli scambi”.

Perché il diminuito potere d’acquisto del dollaro non ha portato il miglioramento sperato nei rapporti commerciali internazionali? Come mai gli Stati Uniti continuano a registrare un disavanzo commerciale così grande? E perché paesi come Giappone e Germania Occidentale continuano ad avere crescenti eccedenze nella bilancia commerciale con gli Stati Uniti nonostante il valore sempre più alto della loro moneta?

Queste sono domande a cui eminenti economisti di ogni parte del mondo si sforzano di trovare una risposta. Ad ogni modo è chiaro che per risolvere i problemi commerciali del mondo non basta giocherellare con il valore del dollaro. Intanto, le accuse e le contraccuse tra i partner commerciali hanno toccato punte di grande tensione sul piano politico ed economico.

Crescente attrito negli scambi commerciali

Molti americani, per esempio, sono convinti che, mentre gli Stati Uniti hanno aperto i loro mercati ai prodotti stranieri, altri paesi — il Giappone e, in minor misura, la Germania Occidentale e altri — non abbiano fatto altrettanto. Invece, dicono, questi paesi ricorrono a sistemi commerciali sleali per favorire le esportazioni e proteggere i propri mercati dalle importazioni. Di conseguenza, a loro avviso, negli Stati Uniti i posti di lavoro diminuiscono e diventa sempre più difficile guadagnarsi da vivere. Questo fatto ha causato notevole attrito, addirittura animosità, tra gli Stati Uniti e i loro partner commerciali.

Alcuni poi si lamentano che, rispetto alle ditte americane, le ditte giapponesi pagano così poco i propri dipendenti da potersi permettere di vendere i prodotti a un prezzo inferiore a quello dei loro concorrenti d’oltreoceano. D’altro canto, per riuscire a sfondare sul mercato giapponese, le ditte straniere devono fare i conti con i tradizionali e singolari usi commerciali, con i complicati sistemi fiscali e di distribuzione, con gli standard di qualità, con la barriera linguistica, con i gusti dei giapponesi e con la riluttanza ad accettare merci straniere. Tutto questo, dicono gli uomini d’affari stranieri, li mette in una condizione di grande svantaggio.

Queste lagnanze sono state riassunte a Tokyo dal ministro americano del Commercio, Malcolm Baldridge, che parlando a un gruppo di eminenti uomini d’affari giapponesi ha detto: “Il Giappone non può mantenere i suoi rapporti commerciali con altri paesi sulla base di esportazioni sempre crescenti e importazioni scarse o stazionarie. Quasi in ogni senso, il Giappone esercita molta influenza sull’economia mondiale ma non si è assunto la responsabilità che quell’influenza comporta”.

Le contraccuse

L’uomo d’affari giapponese, d’altro canto, richiama l’attenzione sulla mentalità del suo collega americano, che si preoccupa del guadagno immediato. Mentre l’uomo d’affari giapponese è disposto ad adottare una visione a lunga scadenza, quello americano ha bisogno di utili immediati per soddisfare i suoi azionisti. Ad esempio, nel 1970 ditte americane e giapponesi intrapresero costose ricerche per tradurre in pratica l’idea di usare un laser per ascoltare incisioni musicali e riprodurre immagini. Non ottenendo risultati, le ditte americane rinunciarono ben presto alle ricerche. Una ditta giapponese, invece, perseverò divenendo un’azienda leader nel settore del compact disc, che ha un giro d’affari di miliardi di dollari.

Un importante motivo dello squilibrio negli scambi, secondo i giapponesi, è che la loro società è orientata verso il risparmio, mentre quella americana è orientata verso il consumo. I giapponesi risparmiano in media quattro volte più degli americani, e complessivamente i loro risparmi superano del 30 per cento il loro prodotto nazionale lordo.

È tipico dei giapponesi pensare che la loro competitività dipenda non da minori costi di produzione, ma da una più elevata produttività e da una migliore amministrazione. Un osservatore americano fa rilevare che “la produttività dei lavoratori delle cinque maggiori industrie americane dell’acciaio, per esempio, è di quasi un terzo inferiore a quella dei loro colleghi giapponesi. Questo significa che, anche a parità di salari, le industrie siderurgiche americane non potrebbero lo stesso competere con quelle giapponesi su un mercato veramente libero. Ma non potrebbero competere neppure le industrie automobilistiche americane”.

Molti giapponesi sono dell’avviso che non sia vero che loro siano contrari all’importazione di merci straniere. Affermano di accogliere sempre di buon grado le merci di importazione, purché le industrie straniere adattino i loro prodotti al gusto giapponese. Per esempio, un fabbricante americano di giocattoli ha rifatto una bambola, dandole una figura più modesta, gambe più corte e occhi color castano scuro. Ne ha venduti milioni di esemplari. Analogamente, una ditta americana di bibite si è accaparrata il 60 per cento del mercato giapponese delle bibite dolcificando maggiormente la sua bevanda, proprio quello che volevano i giapponesi. Le ditte straniere che ricorrono a queste strategie di mercato hanno avuto un enorme successo.

In Giappone alcuni pensano addirittura che l’intero problema del disavanzo commerciale sia gonfiato in misura sproporzionata dagli Stati Uniti per distogliere l’attenzione dai loro scarsi risultati. Fanno notare che, essendo la popolazione del Giappone solo la metà di quella degli Stati Uniti, i giapponesi probabilmente non consumeranno mai tanti prodotti americani quanti sono i prodotti giapponesi consumati dagli americani. Inoltre ritengono che le cifre spesso citate inducano in errore, perché non includono il valore dei beni e dei servizi venduti da ditte che operano in Giappone ma che sono di proprietà o sotto il controllo di americani. Uno studio di consulenze riferisce che in Giappone vi sono 3.000 aziende di questo genere e che nel 1984 le 300 più importanti hanno venduto in Giappone prodotti per un valore pari a 44 miliardi di dollari.

Lo squilibrio negli scambi commerciali è aggravato dal fatto che gli Stati Uniti stanno spostando oltreoceano i loro affari per avvalersi di manodopera a buon mercato. Sempre più di frequente, televisori, computer, auto e altri prodotti di marca americana vengono fabbricati in Giappone, Messico, Taiwan e altrove, e poi venduti sul mercato americano. Come conseguenza, non solo il numero dei posti di lavoro negli Stati Uniti diminuisce, dicono i giapponesi, ma le cifre delle “importazioni” risultano gonfiate.

Sembra dunque che ciascuna delle parti abbia dei motivi legittimi per lamentarsi dell’altra o per giustificare il proprio modo d’agire. Tuttavia, mentre continuano a volare le accuse e le contraccuse, non pare che le guerre commerciali o lo squilibrio negli scambi si stiano risolvendo. Forse le nazioni stanno solo analizzando i sintomi. La causa effettiva della tensione nei rapporti commerciali è più profonda.

La vera causa?

Supponiamo che ci fosse un maggiore movimento di merci da uno stato all’altro degli Stati Uniti o da una prefettura all’altra del Giappone. Causerebbe questo una guerra commerciale o una crisi economica? No, perché i consumatori non si preoccupano del luogo di provenienza dei prodotti, purché la qualità sia buona e il prezzo basso. Che c’è allora di diverso negli scambi internazionali?

L’Asahi Shimbun, un importante quotidiano giapponese, parla di “nazionalismo economico”. Anziché interessarsi della salute dell’economia mondiale, ciascuna nazione si interessa primariamente del proprio benessere. “La convinzione dei giapponesi che solo i prodotti di fabbricazione locale siano di qualità . . . è profondamente radicata”, ha detto il massimo dirigente della American Telephone and Telegraph International di Tokyo. Altrettanto dicasi di americani, tedeschi, inglesi, di tutti insomma. Le nazioni sono divise in molteplici modi.

In effetti, le difficoltà commerciali e il diminuito potere d’acquisto del dollaro sono soltanto sintomi di un sistema afflitto da guerre, violenza, nazionalismo, egoistica ambizione, e, soprattutto, da un senso di rassegnazione. C’è qualcuno che possa eliminare queste enormi barriere e non solo risanare l’economia mondiale, ma anche aiutarci a vivere meglio sotto tutti gli aspetti?

[Immagine a pagina 7]

È possibile che una delle cause del disavanzo nella bilancia commerciale americana col Giappone sia la maggiore produttività dei lavoratori giapponesi?

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