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  • g76 22/2 pp. 13-17
  • La vita del matador è soddisfacente?

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  • La vita del matador è soddisfacente?
  • Svegliatevi! 1976
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  • Nasce il desiderio di fare il matador
  • Passi verso la meta
  • Il mio primo combattimento ufficiale
  • Ulteriori passi verso la meta
  • Soddisfatto come matador?
  • Il matador e la religione
  • Uno scopo migliore nella vita
  • Corrida: Espressione artistica o violenza gratuita?
    Svegliatevi! 1990
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Svegliatevi! 1976
g76 22/2 pp. 13-17

La vita del matador è soddisfacente?

Un uomo racconta come realizzò il suo sogno di diventare matador e com’era realmente questa vita.

PER quasi vent’anni avevo sognato di diventare un vero matador e quel momento era finalmente arrivato. Era il 2 aprile 1967 e mi trovavo ad Alcalá de Henares, Madrid.

Quando uscii dall’albergo, c’era una grande folla di amici e ammiratori che volevano essermi accanto in questo giorno importante. Quel pomeriggio, nella cerimonia detta alternativa, mi dovevano conferire il titolo di matador de toros, il grado più elevato nella tauromachia professionistica.

A presentarmi c’erano il matador anziano Curro Romero, padrino della cerimonia, e come testimone ufficiale il famoso matador El Cordobés, Manuel Benitez. Dopo alcune parole di incoraggiamento con cui fui accolto in questo gruppo esclusivo di professionisti, ricevetti quelli che sono comunemente chiamati los trastos de matar, i ferri del mestiere. Sono la spada e la muleta, la piccola cappa usata per ingannare il toro.

Fui poi abbracciato dai due matadores veterani. E infine, mi trovai a faccia a faccia col toro. Superai la prova. Ora avevo dinanzi una promettente carriera. Finalmente avevo conseguito ciò che desideravo da tanto tempo.

Nasce il desiderio di fare il matador

Da ragazzo, il mio solo interesse erano le corride. Sedevo alla porta del barbiere locale solo per ascoltare gli uomini che ne parlavano. A quel tempo, parlavano ancora della morte di uno dei più famosi toreri di tutti i tempi, Manolete (Manuel Rodriguez), ucciso da un toro nel 1947.

Mi esercitavo alla tauromachia da qualche tempo, ma senza un vero animale. Infine mi si presentò l’occasione. Era il dicembre del 1958, e avevo solo quindici anni.

Una sera alcuni amici più grandi disposero di andare a un recinto di bestiame per esercitarsi. Li convinsi a condurmi con loro. A fatica separarono una mucca selvatica dal branco. Poi noi quattro la “combattemmo” a turno. Al termine, discutemmo su chi era stato il migliore. Un ragazzo disse che ero stato io. Questo mi sorprese, poiché non avevo nessuna idea su ciò che era bene o male in un combattimento contro i tori. Da quel momento in poi, i miei amici più grandi mi condussero con loro alle corride notturne, e mi feci così molta esperienza.

Una sera fui incornato da una mucca che mi aprì uno squarcio nel viso dall’angolo della bocca fino al mento. Il solo medico che avevo era il mio compagno, che mi versò sulla ferita dell’aguardiente, un brandy da poco. Era la prima volta che versavo sangue, e lo considerai un onore. Ma come avrei reagito la volta successiva? Avrei avuto paura ad affrontare un toro nell’arena davanti agli spettatori?

Mentre riflettevo su queste domande, ero sempre più deciso a diventare un matador di successo.

Passi verso la meta

Mio padre tentò di tutto per scoraggiarmi. Mi picchiò e mi tagliò i viveri. Quando scoprì che la sera mancavo, chiuse la porta a chiave così che avrei dovuto passare il resto della notte nella strada. Verso i sedici anni decisi dunque di scappare con due compagni che pure volevano fare i matadores.

Andammo a Salamanca nella parte settentrionale del paese, a circa 700 chilometri dalla mia casa a Palma del Rìo. Viaggiammo gratis salendo su treni merci, e soffrimmo il freddo e la fame, ma riuscimmo a sopravvivere chiedendo da mangiare nelle fattorie, e talora rubando galline. Qualche volta pensavo di tornare a casa, ma l’idea della gloria che avrei avuto come matador mi incitava a continuare.

Un giorno sentimmo che ci doveva essere una corrida a Ciudad Rodrigo, nella provincia di Salamanca. Lì i tori sono così grossi che solo qualcuno è disposto a correre il rischio di scendere nell’arena. Ma il mio desiderio di fare il matador era così grande che non mi preoccupai del pericolo. Volevo solo diventare famoso.

In quell’occasione, a motivo della mia audacia, ricevetti un po’ di denaro, sufficiente per andare a Madrid. Lì, con l’aiuto di parenti, mi iscrissi a una scuola di tauromachia. La frequentai per tre mesi e mi esercitai in quella che si chiama tauromachia da salòn e migliorai il mio stile.

Il mio primo combattimento ufficiale

Ora ero un novizio, detto novillero. Per conseguire la meta di diventare un vero matador avevo bisogno di esperienza e di farmi vedere in pubblico.

Quel momento giunse infine nel 1963 quando combattei per la prima volta in una corrida ufficiale, e il mio nome comparve nella pubblicità. Fu nella mia città, Palma del Rìo, nella provincia di Cordova. Fu in occasione della festa religiosa del paese, e, come si usa nella maggioranza dei paesi, incluse due corride.

Una volta sceso nell’arena, ero così ansioso di vincere che di sicuro la mia furia fu maggiore di quella del toro. E fu un trionfo: mi assegnarono entrambi gli orecchi e la coda del toro, il premio massimo, e il diritto di tornare il giorno dopo. Riuscii anche in quell’occasione. Tutti mi acclamarono e dissero che sarei diventato un buon torero o matador.

Un uomo d’affari volle diventare mio manager e rappresentante. Mio padre aveva cambiato opinione e non era più contrario all’idea che diventassi matador, giacché ne vedeva i vantaggi economici. Davanti al notaio mi emancipò e mi affidò al manager, siccome ero ancora minorenne. Mia madre, d’altronde, era contraria all’idea per i pericoli connessi.

Ulteriori passi verso la meta

Dapprima il mio manager fu molto buono con me, e mi combinò i combattimenti di cui avevo bisogno con tori giovani. Questo mi permise di progredire e migliorare. Ma poi smisi di fare progresso, poiché il mio manager era un dilettante e non era in grado di aiutarmi a raggiungere la statura di matador vero e proprio. Avevo con lui un contratto di cinque anni e il solo modo di sottrarmici era di comprare la mia libertà, ciò che feci. Mi costò un’ingente somma di denaro, ma almeno ero libero di progredire nella mia carriera.

Con un nuovo manager, ottenni un contratto per combattere a Bilbao, in una delle più importanti e vaste arene della Spagna. Fu un combattimento importante nella mia carriera di professionista.

Mentre manovravo la cappa, il toro vi rimase impigliato per un corno e la inchiodò a terra. Rimasi così senza protezione, senza un mezzo per ingannare il toro. Potevo salvarmi scappando, senza perdere l’onore. Ma nella mia inesperienza, e mosso dal desiderio di riuscire, rimasi fermo, scalciando contro il toro. Tuttavia, esso mi incornò la coscia sinistra, quasi trapassandola da parte a parte.

Il sangue mi usciva a fiotti. La folla mi avrebbe certo scusato se mi fossi ritirato. Per un attimo fui indeciso. Ma poi il desiderio di trionfare e di progredire verso la meta di diventare un vero matador furono più forti del dolore procuratomi dalla ferita. Chiesi un’altra cappa e malgrado il fatto che le autorità dell’arena cercassero di fermarmi, affrontai di nuovo il toro. Mi sentivo debole.

Benché il pubblico non desideri vedere una tragedia, si eccita e nelle situazioni in cui il matador corre grande pericolo l’aspettativa è grande. Nonostante la ferita, terminai di manovrare la cappa e riuscii a uccidere il toro. Tra le acclamazioni della folla feci il giro dell’arena e poi fui trasportato all’infermeria. Dopo che mi ebbero prestato le prime cure, mi trasferirono allo speciale ospedale per toreri di Madrid.

I giornali pubblicarono notizie sul combattimento, portandomi all’attenzione del pubblico delle corride. E in una fotografia mi si vedeva combattere il toro, dopo che avevo ricevuto l’incornata alla coscia. Divenni famoso e ottenni contratti per combattere nelle migliori arene della Spagna e della Francia meridionale. Così raggiunsi infine l’obiettivo, e il 2 aprile 1967 partecipai all’alternativa.

Soddisfatto come matador?

Ora guadagnavo fino a L. 1.600.000 circa per ogni corrida o combattimento. Tuttavia, pagata la cuadrilla, o squadra, le spese di viaggio, il vitto, i conti d’albergo e il 10 per cento al mio manager, spesso mi rimaneva meno del 10 per cento. Non accumulavo le ricchezze che desideravo; anzi, spendevo più di quello che guadagnavo, immaginando che la stagione successiva avrei guadagnato di più.

Per qualche tempo pensai che era meraviglioso essere un matador, poiché mi offriva fama e adulazione. Ma vedevo che questa gente era più amica del matador che di me come persona. Volevano godere della gloria riflessa del matador vittorioso e farsi vedere con lui. Così, dopo i combattimenti riusciti, l’albergo era pieno di “amici”; organizzavano feste in mio onore. Ma il giorno in cui nell’arena le cose andavano male, questi “amici” brillavano per la loro assenza.

Inoltre, mi rendevo conto che le corride erano sotto il controllo di un piccolo numero di potenti. Pochi empresarios controllavano le arene principali e ottenere un contratto per combattere in esse o no dipendeva più dalle proprie relazioni che dalle proprie capacità. E di solito i giornalisti non riportavano i trionfi di un matador nell’arena se non avevano ricevuto in anticipo la “mancia”.

C’erano poi le quasi inevitabili incornate. Certo, erano dolorose fisicamente, ma facevano male anche al portafoglio, perché la stagione dura solo alcuni mesi e un’incornata può mettere fuori combattimento per un periodo da due a quattro settimane o più. Fui incornato sette volte, e alla fine le cicatrici rimaste sul mio corpo gli davano l’aspetto di una carta stradale.

Mi accorgevo che la vita del matador non era tutto quello che avevo immaginato. Tuttavia, ci fu qualche cos’altro che mi fece dubitare dell’utilità della vita che conducevo.

Il matador e la religione

La religione è strettamente associata alla tauromachia. Di solito prima di ogni combattimento i matadores visitano una cappella piena di immagini per adorarvi; molti hanno con sé un altare portatile. Ricordo che una volta pregai davanti al mio altare prima di scendere nell’arena, secondo la mia usanza, ma al ritorno scoprii che l’altare aveva preso fuoco! Se fossi arrivato un attimo più tardi l’intera stanza sarebbe bruciata. Questo mi fece pensare: Se queste immagini non potevano salvare se stesse, come potevano proteggere me durante una corrida? Questo dubbio mi turbava.

Un’altra volta quando combattevo in Francia andai a confessarmi, poiché ero solito fare anche questo. Noi che eravamo in attesa fummo sorpresi e delusi quando vedemmo che il sacerdote non veniva a confessarci. Poi quando egli udì che ero lì uscì e mi confessò, ignorando la gente umile che aspettava da tanto tempo. Episodi simili indebolivano la mia fede nella Chiesa Cattolica. Tuttavia credevo in Dio e rispettavo la Bibbia. Anzi, la leggevo con piacere.

Pertanto una volta interrogai un sacerdote riguardo alla Bibbia, spiegandogli che volevo capirla. Tuttavia, egli mi scoraggiò, dicendo che la Bibbia era per i teologi e che se l’avessi letta sarei diventato matto. Ne fui rattristato, e la mia fede nella Chiesa si indebolì ancora di più.

Uno scopo migliore nella vita

Verso quell’epoca, nell’autunno del 1968, mia moglie e io stavamo facendo colazione quando sentimmo bussare alla porta. Andò ad aprire e trovò due donne che ci parlarono della Bibbia. A ogni mia domanda, risposero con la Bibbia. Mi meravigliai e provai il desiderio di saper maneggiare la Bibbia come loro. Leggendo la letteratura che avevo preso da loro, compresi che poteva aiutarmi a ottenere la conoscenza della Bibbia tanto desiderata. Ben presto accettammo in casa nostra un regolare studio biblico.

Proprio a quell’epoca fui invitato a partecipare a una corrida nel corso di una festa in una fattoria per l’allevamento del bestiame. Era presente il vescovo di Siviglia, e notai quanto lo spettacolo lo divertiva. Ma per qualche motivo mi sentivo fuori posto.

Nella mia carriera devo aver ucciso circa 240 tori. Ma anche allora, mentre guardavo altri matadores combattere con un toro sanguinante e sofferente, provavo pietà per l’animale. Man mano che conoscevo meglio gli insegnamenti della Bibbia, comprendevo che la tauromachia non era una carriera adatta per il vero cristiano. La corrida a cui partecipai in occasione della festa alla fattoria fu l’ultima.

Mentre acquistavo conoscenza del proposito di Dio di creare un giusto nuovo sistema di cose, il mio desiderio di servirLo aumentava. (2 Piet. 3:13) Questo divenne lo scopo principale della mia vita. E poiché la Bibbia spiega che Dio vuole che tutti sappiano del suo nuovo sistema, cominciai a parlarne ad altri. — Matt. 24:14.

Molti erano sorpresi, nonché compiaciuti, vedendomi andare alla loro porta. Erano ansiosi di parlare con me di tauromachia. Ma poi coglievo l’occasione per spiegare che nella vita c’è qualcosa di meglio che combattere i tori, cioè conoscere e servire il nostro grande Creatore. Ho senz’altro riscontrato che è così. — Da un collaboratore.

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