Alla ricerca della giustizia sociale
Narrato da Rafael Coello Serrano
GIUSTIZIA per tutti! Un miraggio sociale? Cercando di perseguire quella meta elusiva sono finito dieci volte in prigione, sono entrato e uscito dalle file del partito comunista, e da misere abitazioni costituite da una sola stanza sono passato ad assolvere missioni diplomatiche davanti a governi stranieri. Ci sono voluti cinquant’anni, ma ho trovato la risposta alla domanda che mi ponevo.
Sono nato a Guayaquil, nell’Ecuador, nell’agosto del 1910. La nostra casa modesta ospitava una famiglia numerosa, incluso mio nonno, un giornalista, che mi educava “sulle sue ginocchia”. Mio padre passava tutto il tempo libero con gli amici. Gli uomini — parenti, vicini o ospiti — si vantavano d’essere anticlericali e liberi pensatori; le donne parlavano di Dio e di Gesù.
Già allora notavo grandi differenze nel modo in cui viveva la gente. La maggioranza non poteva permettersi neppure le scarpe e viveva in un’unica stanza. I pochi privilegiati mantenevano le loro residenze di stile europeo con le ricchezze ottenute dalla coltivazione del cacao mentre i lavoratori scalzi seccavano i “semi d’oro” nelle strade bruciate dal sole.
A quell’epoca la gente di Guayaquil soffriva molto a causa delle epidemie di febbre gialla e di peste bubbonica che imperversavano periodicamente nella zona. Malaria e tubercolosi erano all’ordine del giorno. Ero un bambino esile e malaticcio, per cui amici e insegnanti si aspettavano che morissi giovane. Ma crebbi con un grande amore per la vita, cosa che conservo ancor oggi.
Lotta contro l’ingiustizia sociale
Alla scuola superiore mi sentivo oppresso dalle ingiustizie sociali e incontrai vari ostacoli perché non venivo da una famiglia aristocratica. Lì nacque il mio desiderio di combattere le ingiustizie sociali.
Studiai la triste storia dell’uomo, le guerre sanguinose, le divisioni religiose, le Crociate, l’Inquisizione e, per coronare il tutto, la prima guerra mondiale: tutte queste cose erano avvenute prevalentemente nella cristianità. La maggioranza del genere umano viveva in una deplorevole miseria. Operai, umili contadini e poveri in generale erano poco meno che reietti e schiacciati sotto il giogo dei ricchi. I paesi sottosviluppati erano i magazzini di materie prime delle nazioni industriali, che prosperavano mentre noi continuavamo a vivere nella nostra primitiva semplicità. Da ogni parte si levava il grido: “Ingiustizia sociale!”
Benché avessi un debole per la matematica, la fisica e l’astronomia, terminata la scuola superiore mi iscrissi all’università e scelsi la facoltà di legge perché era la più accessibile. Ma l’università aveva molte lacune. Gli studenti che erano in alto sulla scala economica e sociale ricevevano un trattamento speciale. E i metodi d’insegnamento erano retrogradi.
Ricordo un professore che si limitava a sedere alla sua scrivania e ci faceva leggere ad alta voce del materiale sulla filosofia del diritto. Un giorno decidemmo di chiedere che ci fosse concessa la possibilità di discutere il materiale dato che l’avevamo già letto in anticipo. Chi avrebbe parlato per conto della classe? Io.
La lezione iniziò pressappoco così: “Professore, desideriamo chiederle di non farci leggere ad alta voce questo foglio, dato che abbiamo già . . .”
“Silenzio!” gridò. “Decido io il metodo di insegnamento qui”.
“Le chiediamo solo . . .”
“Esca dall’aula!”
“Non devo andarmene”, risposi.
“Uno di noi due è di troppo qui”, ribatté il professore adirato.
“Quello di troppo non sono io!” replicai, seguito da uno scroscio di applausi.
Il professore uscì e non si fece più vedere. E così cominciò anche la nostra lotta. Cinque mesi dopo sedici studenti furono espulsi e fu loro negato il diritto di accedere all’università di Quito e anche a quella di Cuenca. Un gruppo di operai e contadini costituirono una fazione per appoggiarci. Qualche mese più tardi, all’età di soli diciannove anni, mi ritrovai in prigione.
A quell’epoca le attività religiose erano vietate in prigione. Nondimeno una domenica un ecclesiastico cattolico comparve per celebrare la messa. Noi prigionieri politici incitammo gli altri a protestare e, nella confusione, furono bruciate medaglie e statue religiose. Il direttore della prigione fece trascinare fuori della sua cella uno di coloro che protestavano, lo spogliò fino alla cintola davanti alle nostre celle e lo frustò senza pietà. Fummo informati che, se la notizia dell’accaduto fosse giunta alla stampa, anche noi saremmo stati puniti. Il giorno dopo il principale quotidiano di Guayaquil pubblicò la notizia. Fummo messi in segregazione cellulare. Tuttavia la città reagì in modo tale che il direttore del carcere fu destituito. Poi a uno a uno fummo scarcerati. Essendo il più ostinato, fui rilasciato per ultimo.
Nelle file comuniste
Decisi allora di occuparmi di comunismo. “Qui posso combattere l’ingiustizia sociale”, pensai. Studiai minuziosamente gli insegnamenti di Marx, Engels e Lenin, e organizzai il primo gruppo comunista che avesse operato apertamente nell’Ecuador. Ma essere comunista a quel tempo significava essere un reietto della società. Fui cacciato di casa e la mia famiglia mi tolse il saluto. Trovai lavoro come oliatore su un battello fluviale e come aiuto meccanico. Spesso pativo la fame.
Per sette anni, dal 1929 al 1936, noi comunisti ingaggiammo aspre lotte contro i socialisti, contro la polizia a cavallo e contro altri gruppi che si dicevano comunisti ma che erano moderati. Il capo della polizia a cavallo era il padre di un mio amico. Ero invitato spesso a pranzo da loro. “Coellito”, mi disse, “qui in casa mia sei come un figlio; ma se ti prendo nelle dimostrazioni per le strade, ti frusterò come qualsiasi altro ribelle”.
“Grazie, capitano”, risposi, “e anche noi, se ci attaccate, vi prenderemo a sassate”. E successe che una sera per poco non fu ucciso quando venne gettato giù da cavallo durante una sassaiola. Io non avevo partecipato a quella dimostrazione.
Studiando le dottrine di Marx scoprii molte incoerenze e molte domande rimasero senza risposta. Per esempio, il Manifesto del partito comunista, di Marx ed Engels, è una tesi sulla “dittatura del proletariato”. Nello stesso tempo, Lenin aveva detto che lo Stato, formato da “esercito, polizia e prigioni”, è un’“associazione” avente lo scopo di opprimere il proletariato. “La natura fisica è materia in movimento”, aveva detto Engels. Ma come fa a muoversi? Dove si muove? C’è ordine nel movimento? Il comunismo non spiega queste cose. Giunsi alla conclusione che il rimedio per l’ingiustizia sociale non si trovava nel comunismo.
Un anno dopo il mio primo matrimonio fu sciolto. Era durato quattro anni e avevamo avuto due figlie. Nel 1939, tre anni dopo aver dato un taglio netto al comunismo, incontrai Olga, la mia attuale moglie. Era un’insegnante scrupolosa e una fervente cattolica le cui idee rispettavo. Abbiamo avuto sette figli.
Ingiustizia da tutte le parti
Ripresi gli studi e scoprii che l’università locale era cambiata. C’erano molti ottimi insegnanti che mi facevano studiare duramente. Inoltre adesso volevo riuscire negli studi e riuscii.
Nel 1942 ottenni la laurea di dottore in legge. A questo punto avevo capito che la legge scritta, ragionevole in linea di massima, è una cosa, ma che la sua applicazione è qualche cosa di molto diverso. Quelli delle alte sfere, che avevano denaro e influenza, potevano, con mezzi subdoli, far cambiare la decisione della maggioranza dei giudici. Se uno dei “potenti” era coinvolto in qualche frode clamorosa, diventava un “errore” o un’operazione finanziaria mal calcolata. Ma se un comune cittadino rubava denaro per comprare da mangiare (pur sempre un furto) finiva direttamente in prigione. Come avvocato mi immaginavo nella veste di soccorritore dei poveri.
Nel 1944 scoppiarono a Guayaquil violenti disordini politici, che si estesero rapidamente in tutto il paese. All’improvviso la mia vita fu in pericolo. Malgrado avessi cessato le mie attività di sinistra, certuni temevano che potessi di nuovo contestare la loro posizione influente. Asserivano che in mezzo a loro c’era un “nemico del popolo”. I vicini mi informarono dei complotti, e, ritenendolo necessario per la mia sicurezza, decisi di scendere nuovamente nell’arena politica.
Le atrocità, le persecuzioni, le torture e i linciaggi perfino di vittime innocenti per il “bene” del popolo, di cui fui testimone durante quell’insurrezione, mi fecero inorridire. Capi opportunisti diedero la scalata al successo in nome del “popolo”, per arricchirsi a spese dei cittadini. L’insurrezione del 1944 portò la giustizia sociale? No di certo!
Rientrato nell’arena politica, divenni testimone di notevoli contrasti. Nel 1946 fui presente come rappresentante ufficiale del governo all’insediamento in carica del presidente del Messico. Al sontuoso ricevimento vidi migliaia di ospiti provenienti da ogni parte del mondo sfoggiare i loro abiti eleganti; ufficiali militari sovietici ornati di medaglie; marescialli inglesi; generali americani; famose stelle del cinema. Quella stessa notte a Città del Messico la temperatura scese al di sotto dello zero. La mattina dopo la polizia raccolse decine di cadaveri, vittime malnutrite del tempo inclemente. Costrette a dormire all’aperto, erano morte di freddo. Ciò che vidi quella memorabile notte ebbe il salutare effetto di farmi provare disgusto per quel tipo di vita.
Nel 1950 e nel 1951, sotto il governo di presidente “democratico”, trascorsi un anno in prigione. Allora ero deputato, ma fui privato dell’immunità parlamentare. Per sei giorni mi fu impedito di comunicare con l’esterno, mi furono negati i miei diritti e rischiai il linciaggio. Perché? Facevo parte di un gruppo di uomini politici che si opponevano attivamente alla democrazia di proprietari terrieri milionari sulle cui terre gli indios vivevano in condizioni di povertà quasi abiette.
Durante il mio periodo di detenzione cominciai a pensare che la giustizia sociale poteva venire solo da Dio. Poi un missionario dei testimoni di Geova, Albert Hoffman, venne a trovarmi in prigione e mi lasciò il libro “Sia Dio riconosciuto verace”. Questo episodio non doveva rimanere senza significato, poiché Albert e io ci saremmo rivisti.
In seguito, nel 1953, essendo diventato uno stretto collaboratore del presidente della Repubblica, fui inviato come ambasciatore a un convegno del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite. In quell’occasione vidi un altro delegato opporsi sistematicamente a qualsiasi provvedimento che avrebbe potuto favorire le zone sottosviluppate dell’America Latina. Giustizia sociale su scala internazionale? Assolutamente no, neppure alle Nazioni Unite, unite soprattutto, così pareva, sotto l’oppressivo giogo delle superpotenze.
Ricordo che un giorno il presidente dell’Ecuador mi disse: “Dott. Coello, lei è stato un vero combattente. Ha bisogno di qualcosa per coronare la sua straordinaria carriera; un tocco aureo, diciamo, la vita di diplomatico per alcuni anni”.
Risposi: “È davvero un onore, Signor Presidente, ma immeritato e per tale ragione declino l’offerta. La declino proprio perché sono un combattente. Non sono fatto per la vita facile del diplomatico. Preferisco stare con le masse, dividere la loro sorte. La ringrazio molto”. E rifiutai.
Ricordavo di aver letto un brano della Bibbia in cui Gesù aveva provato pietà vedendo le folle, il popolo, come pecore disperse senza pastore. (Matteo 9:36) I pochi privilegiati continuavano a ingrassarsi a spese delle masse impoverite. Cercavo ancora il modo per porre rimedio a questa ingiustizia.
La ricerca si intensifica
Nel 1956 cessai ogni attività politica. Perché? Due anni prima ero stato oggetto di un aspro attacco da parte di tutti i partiti politici del paese. L’Amministrazione della Previdenza Sociale dell’Ecuador, di cui ero presidente, aveva acquistato circa 1.800.000 metri quadrati di terra, da lottizzare per poi costruirvi alloggi economici, al prezzo eccezionalmente basso di 12 sucre (circa 500 lire) al metro quadrato. I miei avversari politici mi avevano accusato di avere personalmente ricevuto dai venditori, sotto banco, niente meno che 14 milioni di sucre! Fui dipinto a torto come un grande imbroglione.
A questo punto decisi di combattere pubblicando un settimanale che chiamai Verità. Con l’uscita del primo numero i miei amici si zittirono e io fui sorpreso di me stesso. Perché mai? Cominciai a dire la verità senza ambiguità e senza insulti.
Ad ogni modo la macchina da stampa che avevo preso a credito e la mia casa, ipotecata dalla previdenza sociale, vennero sottoposte a restrizioni legali. I miei avversari volevano rovinarmi. Ma non ci riuscirono. Sentivo che la giustizia poteva venire solo dall’alto.
Persuasi la mia famiglia a leggere insieme a me la Bibbia ogni settimana per un’ora. Fummo commossi dalle parole e dalle opere di Gesù, sebbene ci fossero molte cose nella Bibbia che volevo spiegare ai miei figli, senza però riuscirci. Ad ogni modo comprendemmo chiaramente che la vera giustizia può venire solo da Dio.
Una mattina dell’ottobre 1958 un uomo dall’aspetto gentile bussò alla mia porta. Albert Hoffman era tornato a cercarmi! Compresi che era qualcuno che avevo atteso senza saperlo. Cominciammo a studiare la Bibbia servendoci del libro “Questo significa vita eterna”.
Scoprii che la Bibbia è un profondo mare di parole di vita, un dono amorevole del tenero Creatore. Il mio cuore fu toccato da brani come quello di Giovanni 3:16: “Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio, onde chiunque esercita fede in lui non sia distrutto ma abbia vita eterna”. Vita eterna! E vita perfetta, con vera giustizia per tutti!
Predicatore di giustizia
Dopo aver fatto lo studio biblico con Albert, nel 1959 dedicai la mia vita a Geova Dio. Da allora ho usato la Bibbia, insieme alle mie esperienze personali, nel tentativo di aiutare altri a capire che la vera giustizia viene solo da Geova Dio.
Ho avuto il privilegio di parlare della giustizia di Geova a uomini di ogni condizione sociale, da ex presidenti della repubblica a umilissimi lavoratori. Grazie alla luce della Bibbia alcuni hanno visto cos’è la vera giustizia. Altri non hanno ascoltato.
La mia più grande gioia, però, è stata quella di aiutare mia moglie e i miei figli a dedicare la propria vita a Geova.
Ero finalmente riuscito a cambiare il mio ristretto modo di vedere. Avevo imparato che la vera giustizia poteva venire solo da Geova Dio. Solo lui può vedere nel cuore degli uomini ed eliminare l’egoismo, che è la causa dell’ingiustizia sociale. Egli ha promesso un sistema completamente nuovo per questa terra sotto la guida di un governo celeste che sarà assolutamente imparziale. Che gioia fu per me apprendere che presto, in quel nuovo ordine, ogni uomo coltiverà il suo giardino e ne raccoglierà i frutti e costruirà la propria casa per abitarla. Tutti saranno mossi da impulsi generosi e non da sordido egoismo. — Vedi Isaia 65:21, 23.
Esperienze e felicità
Come dottore in giurisprudenza, sette anni fa fui nominato giudice della Corte d’Appello. Ho sempre cercato di prendere decisioni basate sull’equità e sulla giustizia. In tutto il tempo in cui ho fatto il giudice ho potuto capire ancora di più il grande abisso che separa la giustizia umana dalla vera giustizia di Geova. Nel 1980 sono andato in pensione.
Anche se viviamo nell’imperfezione e non abbiamo ancora vera giustizia sociale, ho visto che la giustizia sociale esiste già da ora fra i testimoni di Geova. Qualsiasi traccia di segregazione sociale, razziale o economica è rarissima fra loro.
Nell’agosto del 1981 ho compiuto 71 anni. Sebbene mi tenga molto occupato ci sono momenti in cui è piacevole dare libero sfogo alla fantasia e sognare le cose che Geova ha promesse. Mi immagino già nel Nuovo Ordine, riunito coi miei antenati risuscitati, a parlare affettuosamente delle verità bibliche con mio nonno, che da piccolo mi ammaestrò. Inoltre non vedo l’ora d’avere le opportunità che ci saranno allora di conoscere la grandezza di Geova e lodarlo nell’unità, come Dio d’amore e di giustizia, per sempre.
[Testo in evidenza a pagina 18]
‘In prigione cominciai a pensare che la giustizia sociale poteva venire solo da Dio’
[Testo in evidenza a pagina 19]
‘Appresi che Dio ha promesso un governo completamente nuovo per questa terra’
[Immagine a pagina 17]
Quando ero un capo politico combattevo per difendere le cause sociali
[Immagine di Rafael Coello Serrano a pagina 16]