Lottai per essere il migliore: Ne valeva la pena?
Riflessioni di un campione olimpionico
PER anni avevo sognato quel momento, partecipare alle Olimpiadi. Era il sabato 17 ottobre 1964, l’ottavo giorno delle Olimpiadi di Tokyo, in Giappone.
I 75.000 posti dello Stadio Nazionale erano tutti occupati. Le strade di Tokyo apparivano deserte; praticamente tutti erano davanti al televisore. Era giunto il momento delle finali dei 200 metri piani.
Presi posto ai blocchi di partenza insieme a sette altri velocisti. Ognuno di noi aveva superato la serie di prove eliminatorie dei giorni precedenti. Per questa distanza, eravamo gli uomini più veloci del mondo.
La tensione era quasi insostenibile e questo non solo per i milioni d’occhi che ci guardavano. C’era di mezzo il nazionalismo. Le Olimpiadi stavano diventando una grossa competizione fra Russi e Americani. Ogni giorno venivano trasmessi in tutto il mondo i confronti fra le medaglie vinte da ciascun paese. Le nostre scuole, i sindaci, i governatori e perfino il presidente ci avevano inviato telegrammi dicendoci di ricordare che gareggiavamo per il nostro paese, e che il nostro paese è il migliore.
Anche i giornali facevano pressione su di noi, calcolando le medaglie che avremmo dovuto vincere. Facevano pensare che vincere fosse una questione di vita o di morte, come se il paese avesse perso l’onore nel caso fossimo stati sconfitti. Infatti, Kokichi Tsuburaya, il maratoneta giapponese, si suicidò perché aveva perso. Lasciò un biglietto in cui si scusava per aver ‘tradito’ le aspettative del suo paese.
Cominciai dunque a pensare: ‘Non posso deludere il mio paese. Se perdo non potrò guardarli in faccia al mio ritorno’. Ero il detentore del primato mondiale dei 200 metri piani, quindi si aspettavano che vincessi.
Anche i negri, desiderando farsi valere, facevano pressione. Mi era stato detto spesso come altri negri avevano perso, deludendo la nostra gente. Così ora dovevo vincere per i negri d’America. Tuttavia altri negri facevano pressione per boicottare le Olimpiadi, per mostrare all’America che senza di noi negri non poteva vincere.
Ma soprattutto pensavo alla mia famiglia e ai miei amici. Non volevo metterli in imbarazzo. Ero il loro eroe. Mi sostenevano, facevano il tifo per me. Quando vincevo, essi vincevano. Quando perdevo, essi perdevano. Forse capirete meglio questo fatto se vi dico qualcosa sull’ambiente dove crebbi.
La via del successo
Crebbi a Detroit, nel Michigan, nono di undici figli. Sin dove arrivano i miei ricordi, mamma e papà erano separati. La mamma lavorava come domestica per lunghe ore al fine di mantenerci.
Ero sempre stato un tipo attivo. Poiché leggere e scrivere mi era difficile, essere il ragazzo più veloce dell’isolato o il miglior giocatore significava qualcosa; mi faceva sentire qualcuno.
Alla scuola superiore, mi distinsi negli sport quasi dall’inizio. Per tre anni — 1959, 1960 e 1961 — feci parte della squadra formata dai migliori corridori scelti nelle scuole superiori americane. La mia specialità erano le 220 iarde piane. Per due anni fui anche scelto per giocare nelle squadre di rugby americano e pallacanestro.
Di regola, l’università sarebbe stata fuori questione. Ma ora le università ricercavano i miei servizi. Feci il giro di varie università negli Stati Uniti ed esse cercarono di allettarmi con doni. Come risultato, malgrado la povertà della mia famiglia, avevo soldi in tasca e guidavo perfino una Cadillac! Mi avevano dato la patente in un bar, senza che dessi neppure l’esame! Ci aveva pensato una delle vicine università desiderosa di ingaggiarmi.
Comunque, scelsi di andare all’università statale dell’Arizona, e in breve tempo divenni un corridore famoso in campo mondiale. Frequentavo il secondo anno di università quando battei il primato mondiale delle 220 iarde piane. Gli esponenti politici volevano conoscermi e stringermi la mano. A Mosca conobbi Nikita Chruscev. Ma la fama conquistata e i viaggi che facevo in ogni parte del mondo per partecipare alle corse mi sembravano irreali.
Di ritorno nello Stato dell’Arizona ricevetti un trattamento di favore solo perché ero un corridore veloce. Mi coprivano di doni. Quindi ero sempre pieno di soldi, avevo abiti nuovi e la macchina. Spesso mandavo denaro a casa per aiutare i miei familiari. Favori e attenzioni mi erano senz’altro graditi. Ma sapevo che non era corretto; avremmo dovuto essere dilettanti non retribuiti. Tuttavia le cose stavano così.
REALTÀ INGIUSTE
Benché grazie alle mie capacità ricevessi molte lodi, proprio il mese prima di andare a Tokyo ero stato cacciato da un motel nel sud degli Stati Uniti perché ero negro. La padrona mi aveva gridato: “Qui non accettiamo quelli della tua razza”. Era tardi e l’unica cosa che volevo era un posto per dormire.
Verso quello stesso tempo i bianchi assassinarono tre sostenitori dei diritti civili nel Mississippi. Nel Sud sguinzagliavano i cani alle calcagna dei negri solo perché questi desideravano farsi un’istruzione migliore. Ma durante i miei viaggi nelle varie parti del mondo mi ero convinto che dappertutto ci sono ingiustizie. In altri paesi le libertà personali che negli Stati Uniti io prendevo per scontate erano spesso molto limitate.
Provavo compassione per chi soffriva. Ma cosa potevo fare? Compresi che negli Stati Uniti non c’era solo il problema della razza. Quando al potere c’erano i negri a volte trattavano gli altri negri così male come i bianchi. Il buon senso mi diceva che non potevo veramente fare nulla, e così decisi che non avrei messo in pericolo il mio avvenire immischiandomi.
Per quanto mi riguardava, a quel tempo andava tutto bene. Quando ero ragazzo eravamo così poveri che la sera andavo a letto affamato, e non volevo che mi succedesse di nuovo. Così imparai a essere il tipo di persona educata e mite che il sistema voleva. Spesso la gente mi diceva: ‘Se vincerai la corsa importante alle Olimpiadi non avrai nulla da temere. Qualche grossa società ti assumerà perché sei un eroe delle Olimpiadi’. Quindi volevo evitare guai e vincere.
Alcuni dicono che ero un corridore nato, ‘il miglior velocista dai tempi in cui Jesse Owens era stato all’apice della carriera’. Ma lasciatemi dire che per sviluppare la mia capacità mi ero impegnato a fondo. Avevo dovuto lottare per essere il migliore. Ma se vincendo alle Olimpiadi avessi ottenuto quello che la gente diceva, allora pensavo che ne sarebbe valsa la pena.
Non mi ero mai sentito tanto sotto pressione come quando presi posto ai blocchi di partenza per le finali delle Olimpiadi.
IL RISULTATO
Mi piegai ai blocchi di partenza della corsia sette. La mia strategia era di passare in testa prima di arrivare alla curva e costringere gli altri a cercare di starmi dietro, per farli stancare un po’. Infatti, se non si è rilassati quando si corre, non si può dare il meglio di sé.
Fu dato l’annuncio: “Pronti per la partenza!” Poi risuonò il colpo di pistola: “BANG!” Partii bene. Giunto alla curva pensai: ‘Ha funzionato! Sono in testa! Vincerò’. Non vedevo altro che la linea del traguardo. Sollevai le gambe e con un ultimo scatto toccai il traguardo. Avevo vinto!
Ero in un altro mondo. Tutto sembrava immobile. Ero al colmo dell’emozione. Avevo stabilito un nuovo primato olimpionico e dissero che probabilmente avrei battuto il mio stesso primato mondiale se non ci fosse stato il vento contrario.
In piedi sulla pedana dei vincitori, mentre suonava l’inno nazionale americano, volevo essere fiero di quello che avevo fatto per il mio paese. E provai piacere udendo le migliaia di persone che acclamavano. Ma nello stesso tempo sentii che era tutto un inganno, perché le stesse ingiustizie che affliggevano le persone prima che salissi sulla pedana dei vincitori esistevano ancora.
Mi chiedevo: ‘Che ne sarà di me ora che tutto è finito? Cosa faranno i miei sostenitori? Mi abbandoneranno? Che tipo di lavoro troverò?’ Ero felice, spaventato e adirato a un tempo.
Tornando in macchina al Villaggio Olimpico, guardai per la prima volta la medaglia d’oro. Non era come mi ero aspettato; era solo un dollaro d’argento più grande del normale. Mi chiesi effettivamente: ‘È mai possibile! Mi sono impegnato duramente in tutti questi anni, e per ricevere questo?’ Ero furioso mentre avrei dovuto essere felice. Fu una vera delusione.
Qualche giorno dopo corsi l’ultima frazione di 400 metri della staffetta di 1.600 metri. Stabilimmo un nuovo primato olimpionico e mondiale e vinsi un’altra medaglia d’oro. Dopo il viaggio in Australia per partecipare ad alcune gare, tornai in patria.
A faccia a faccia con la realtà: Le conseguenze
Durante il viaggio di ritorno riflettei sulla nuova fase della mia vita che stava iniziando, trovare lavoro e formarmi una famiglia. Prima, però, con alcuni compagni della squadra olimpionica, andai alla Casa Bianca dove ricevetti le congratulazioni del presidente Johnson.
Mi ero aspettato di dover considerare varie offerte di lavoro e di poter scegliere quella che volevo. Per anni mi era stato detto che le cose sarebbero andate così se alle Olimpiadi avessi ottenuto la vittoria per il mio paese. Ma non era vero. Ovunque andassi, pareva che alla gente non gliene importasse nulla del fatto che avevo vinto alle Olimpiadi. Oh, sì, ne parlavano volentieri. Ma quando si trattava di assumermi, mi vedevano come un semplice negro, qualcuno che non faceva al caso loro. Naturalmente, cominciai a sentirmi amareggiato.
Alcuni mesi dopo, ricevetti una telefonata con cui mi chiesero se mi interessava giocare da professionista in una squadra di rugby americano. Non giocavo a rugby da due anni, poiché mi ero specializzato nella corsa. Ma cercavo disperatamente lavoro e dissi di sì. I New York Giants mi offrirono un contratto, supponendo che con la mia velocità mi sarei reso utile.
Disperato com’ero ce la misi tutta e riuscii. Per tre anni giocai molto bene, e per un po’ come capitano. Un cronista sportivo disse: “Carr, entrato nei New York Giants, è divenuto uno dei migliori trequarti della lega”.
Nella mia terza stagione mi restavano solo tre partite da giocare quando mi feci male a un ginocchio e l’allenatore disse che per quell’anno avevo finito. Ma in seguito venne il dottore e disse che gli allenatori volevano che giocassi. Sorse una disputa sulla gravità del mio male, poiché quell’anno, in precedenza, ero stato coinvolto in una controversia razziale nella squadra.
Di conseguenza, alla fine della stagione fui ceduto a un’altra squadra. C’era in giro la voce che ero un attaccabrighe e che non potevo giocare quando mi facevo male. Fui trattato allo stesso modo dalla squadra alla quale ero stato ceduto. Decisi dunque di smettere, anche se l’anno prima avevo guadagnato 27.000 dollari.
AVEVO PERSO
Cercai un lavoro decente ma non riuscii a trovarlo. Infine investii del denaro in una catena di vendite di hamburger e lo persi. Ne fui adirato e amareggiato. Pensavo che la gente cominciasse a considerarmi uno che aveva avuto una possibilità di farcela ma non c’era riuscito.
Ne risentii mentalmente. Stavo perdendo ogni interesse per la vita. Mi misi a fumare marijuana tutti i giorni e sognavo come avrei potuto risalire la china. Mia moglie voleva aiutarmi ma non poteva. Pensai che la mia famiglia (adesso avevamo due bambini) sarebbe stata meglio senza di me. Così me ne andai di casa.
Col tempo toccai proprio il fondo, arrivando a frequentare spacciatori di droga e prostitute. Cominciai a giocare d’azzardo e a fiutare cocaina. Essendo cresciuto in un ghetto di Detroit, conoscevo molti di quelli che ora bazzicavo. Finirono ben presto per considerarmi uno dei ‘ragazzi’ e stabilirono di farmi diventare uno spacciatore di droga.
Dopo vari mesi smisi e feci un buon esame di coscienza. Facevo proprio le cose che avevo sempre odiate. Era tutto negativo; non c’era nulla di positivo. Non sapevo né cosa fare né dove girarmi. Avevo la Bibbia e mi misi a leggerla, ma pareva non avesse senso. Decisi di tornare a casa.
Una vita degna d’essere vissuta
Mia moglie fu comprensiva. E dallo sguardo dei miei figli si capiva che avevano veramente sentito la mia mancanza. Accettai un lavoro nella contea; dovevo occuparmi dei delinquenti minorili. Ma ben presto furono annunciate delle riduzioni di bilancio, il che significò il mio licenziamento. A causa del mio orgoglio, mi sentii di nuovo disperato.
Con il consenso di mia moglie, vendetti una proprietà e col denaro aprii un’agenzia pubblicitaria. Il mio socio era un disegnatore commerciale di grande talento e io mi occupavo delle relazioni pubbliche. La gente mi conosceva e mi riconosceva, e ben presto facevo la spola fra casa e New York per visitare i clienti. Gli affari prosperarono.
Quando un giorno tornai dal lavoro, mia moglie mi chiese se poteva studiare la Bibbia con i testimoni di Geova. Le chiesi: “Perché?” Disse che i genitori di un suo allievo (insegnava alle scuole elementari) le avevano dato il libro La Verità che conduce alla Vita Eterna. E un altro insegnante le aveva detto che se voleva sapere qualcosa della Bibbia, doveva rivolgersi ai testimoni di Geova.
Ultimamente avevamo parlato di varie religioni, poiché il nostro ragazzo sarebbe andato a scuola fra breve e pensavamo fosse importante dargli un’istruzione religiosa. Ma nella nostra conversazione non avevamo incluso i testimoni di Geova. Sapevo solo che erano considerati una religione strana. Tuttavia, se ella voleva studiare con loro, per me andava bene.
Il lavoro non mi dava un attimo di respiro, ma nei ritagli di tempo mia moglie mi parlava delle cose che imparava. Circa una settimana dopo, il marito della donna con cui ella studiava venne a farmi visita.
QUALCOSA A CUI PENSARE
Egli menzionò come sarebbe stata bella la terra se solo tutti fossero vissuti insieme in pace. Poi disse: “Non è ovvio che l’Onnipotente Dio non è responsabile delle odierne condizioni del mondo?”
Ne fui sorpreso. “Se Dio non ne è responsabile, chi lo è allora?” mi chiedevo.
“Satana il Diavolo”, disse. E ciò che mi stupì fu il fatto che aprì la Bibbia e me lo mostrò. Secondo Corinti 4:4 dice: “L’iddio di questo sistema di cose ha accecato le menti degli increduli, affinché la luce della gloriosa buona notizia intorno al Cristo, che è l’immagine di Dio, non risplenda loro”.
Il Testimone spiegò che Satana è “l’iddio di questo sistema di cose”. E ciò aveva veramente senso allorché mi fece notare le spaventose ingiustizie che si commettono in tutto il mondo. Questo è il mondo di Satana ed egli influenza i suoi, sottolineò il Testimone. E questo mi aiutò a capire un’altra scrittura che mi fu mostrata. Gesù Cristo disse: “Il governante di questo mondo sarà cacciato fuori”. — Giov. 12:31.
Ovviamente gli uomini non possono sbarazzarsi di questa potente persona spirituale, Satana il Diavolo, ma Dio sì, spiegò il Testimone. E lo toglierà di mezzo per realizzare il suo proposito di creare una terra pacifica sotto il dominio del suo Regno. Sembrava ragionevole. Era veramente qualcosa a cui pensare.
AIUTATO A PRENDERE LA DECISIONE GIUSTA
Il Testimone tornò varie volte e se mi trovava in casa facevamo un’altra conversazione sulla Bibbia. Cominciai a credere realmente in quello che imparavo, poiché era tratto proprio dalla Parola di Dio. Per esempio, non sapevo che Dio aveva un nome. Tuttavia proprio lì nella Bibbia in Salmo 83:18 dice che il suo nome è GEOVA. Mi piaceva conoscere queste cose.
Ma quello che dice la Bibbia del fatto che Satana è l’iddio di questo mondo cominciò a turbarmi, specialmente quando dice che i seguaci di Cristo non fanno parte del mondo. (Giov. 17:14-16) Una ragione era che io ero coinvolto nella politica e uno dei clienti più importanti per i quali facevo pubblicità era il principale candidato negro per la carica di sindaco di Detroit.
Così un giorno dissi al Testimone: “So che lei fa sul serio, che cerca di aiutarmi. Ma io sono troppo preso dalla mia nuova agenzia pubblicitaria e non voglio disturbarla facendola venire quando forse non sono a casa”.
Poco dopo mi feci male alla schiena e mi trovai in gravi condizioni, così che finii all’ospedale. In quel tempo i Testimoni vennero a trovarmi e mi mostrarono vera premura. Io pensavo: ‘Questa gente non sa nulla di me. Sanno solo che sono il marito di Glenda e mi trattano in questo modo’. Ma lo gradivo.
Intanto avevo visto dei cambiamenti in mia moglie. Per esempio, era morta la figlioletta di una Testimone e mia moglie era veramente preoccupata per la madre. La guardavo e pensavo: ‘Non si è mai comportata così. Perché si preoccupa tanto di cucinare per questa donna e di andare ad aiutarla?’ Mentre ero in ospedale mi venivano in mente queste cose.
Nel frattempo la nostra agenzia pubblicitaria andava a rotoli. Vi erano impiegati quattro uomini e c’era bisogno di me per tirare avanti. Quando uscii dall’ospedale gli affari andavano così male che tutti avevano lasciato perdere. Avevo subìto un’altra perdita finanziaria.
Sapevo che tipo di persona volevo essere, volevo essere in grado di amare ed essere amato, ed essere felice. Visti i cambiamenti che aveva fatto mia moglie, decisi che questo era anche ciò che io volevo. E il pensiero che mi era rimasto fisso in mente era il fatto che Satana è l’iddio di questo sistema e che avevo bisogno di aiuto per combattere la sua influenza. Così quando uscii dall’ospedale telefonai al Testimone e gli dissi che volevo fare lo studio biblico.
COME CAMBIAI
Dopo il primo studio nel dicembre del 1972, andai alla Sala del Regno. Furono tutti premurosi e lieti di vedermi. E mia moglie era raggiante, felice di vedermi lì. Ricordo che un oratore spiegò che il marito è capo della sua casa e deve prendere l’iniziativa. E pensavo: ‘Mia moglie ha fatto questo, ha studiato con i ragazzi, li ha condotti alle adunanze, ha pregato con loro e io non ho fatto nulla’.
La settimana dopo i ragazzi erano malati e mia moglie disse: “Rimani con i ragazzi, io vado all’adunanza”. Non pensava che io ci volessi andare. Ma la guardai e dissi: “Io sono quello che dovrei prendere la direttiva. Quindi rimani a casa tu con i ragazzi”.
Mi guardò, sorpresa, ma penso fosse contenta. Io mi sentii bene, fiero del fatto che cominciavo a prendere la direttiva. Posso contare le volte che da allora sono mancato alle adunanze. Mi hanno realmente aiutato a fare i cambiamenti che hanno portato la felicità nella nostra famiglia.
Nel frattempo riuscii a trovare il tipo di lavoro che avevo sempre desiderato, quello di responsabile della pubblicità di un giornale. Ero impegnato — sempre in movimento — la gente mi conosceva e io conoscevo la gente e vidi come potevo fare carriera. Anzi, mi fecero parecchie altre offerte di lavoro, ma io continuai ad andare alle adunanze, e fu un bene perché quello che appresi in esse influì realmente sulla mia vita.
Ad esempio, sapevo che le droghe pesanti fanno male. E avevo smesso di prenderle. Ma fumavo ancora marijuana. Non mi era passato per la mente che fosse proprio male, dato che tanti la fumano. Ma a un’adunanza fu mostrato che il fumo è contrario alle Scritture. La Bibbia dice che dobbiamo ‘purificarci da ogni contaminazione di carne e di spirito’. Mi fu chiaro che se volevo piacere a Geova Dio dovevo smettere di fumare marijuana. — 2 Cor. 7:1.
A un’altra adunanza fu sottolineato che l’adulterio è errato. La Bibbia dice: “Il matrimonio sia onorevole fra tutti, e il letto matrimoniale sia senza contaminazione, poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri”. (Ebr. 13:4) Compresi dunque che avrei dovuto fare alcuni cambiamenti radicali.
Volevo piacere a Dio e quindi gli parlavo di queste cose in preghiera. Ma poi lessi qualcosa nella Torre di Guardia sulla necessità di dire sempre la verità a Geova. Così gli dissi sinceramente che queste cose cattive mi piacevano davvero — e che le avevo anche ricercate con ansia — eppure ora desideravo più di ogni altra cosa piacergli. Essendo così sincero con Dio e confidando nel suo aiuto, mi tolsi queste cattive abitudini. Perfino smettere di fumare marijuana non fu così difficile come avevo pensato.
Ero molto più felice. Cominciai ad avere uno scopo nella vita, una guida. I miei figli si rivolgevano a me per avere una guida. Apprezzavamo tutti Geova e le adunanze a cui assistevamo insieme. Era meraviglioso! Ero felice di questi avvenimenti e dei cambiamenti che avvenivano in me e nella mia famiglia, più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Ero convinto che avevamo trovato la verità. E pensavo che tutti i miei amici — che erano frustrati, pieni di problemi e conducevano una vita immorale — avrebbero senz’altro voluto sentirne parlare. Ma nessuno ascoltò, neppure uno. Infatti, cominciarono a schernirmi, chiamandomi “il predicatore”. “Ecco che arriva il predicatore”, dicevano.
Comprendevo così che queste persone del mondo non erano i miei veri amici. Volevo come amici persone che amavano Dio. Quindi per simboleggiare il fatto che avevamo dedicato la nostra vita a servire Geova Dio, il 20 maggio 1973 mia moglie e io fummo battezzati.
Le cose eccellenti che avevo trovate — la mia buona relazione con Dio, con la mia famiglia e con altri cristiani — mi erano divenute più care di qualsiasi altra cosa. Sebbene il mio lavoro fosse interessante e redditizio, esso divideva i miei interessi e mi metteva a contatto con cattive compagnie e tentazioni. Pensavo sempre alla scrittura: “Le cattive compagnie corrompono le utili abitudini”. (1 Cor. 15:33) Quindi smisi di lavorare nella pubblicità, anche se era il lavoro che avevo desiderato per tanto tempo.
MATERIALMENTE PIÙ POVERO, MA RICCO
Un Testimone della congregazione che faceva il verniciatore mi assunse come aiutante. Non guadagnavo molto, ma ero felice. Non mi preoccupavo di salvare le apparenze. Volevo solo servire Geova. Sapevo che è una persona realmente esistente, la sola Persona che può correggere tutte le ingiustizie. Le prove bibliche — l’adempimento delle profezie e il potere della Bibbia di produrre cambiamenti nella vita delle persone — me ne convinsero.
Al nostro ritorno da una grande assemblea di testimoni di Geova nel 1973, dissi a mia moglie: “Dovrei fare il pioniere (predicazione in servizio continuo)”. Poiché avevamo dell’altra proprietà da vendere, non c’era nulla che mi trattenesse. Così cominciai l’opera di pioniere.
Dopo un po’ pensai: ‘Potremmo renderci più utili dove c’è maggior bisogno di predicatori del Regno’. Per coincidenza Fred Cooper, uno con cui avevo frequentato la scuola superiore, mi telefonò dalla Georgia. Egli è anziano in una congregazione di lì e aveva sentito che ero divenuto Testimone. Gli dissi che pensavo di andare a servire dove il bisogno era maggiore. Così finimmo per vendere la casa e trasferirci in Georgia.
L’opera di pioniere era veramente gioiosa, ma a causa del mio disturbo alla schiena e della necessità di trovare un lavoro per mantenere la famiglia, nel maggio del 1975 dovetti infine smettere di fare il pioniere. Tuttavia in settembre fui nominato anziano della congregazione locale. Da allora sia mia moglie che io abbiamo insegnato nella scuola elementare per far fronte alle spese. No, non abbiamo molte cose materiali, ma siamo ricchi sotto altri aspetti più importanti.
Per citarvi un esempio, mio figlio si interessa delle cose spirituali, legge la Bibbia e le nostre pubblicazioni di studio biblico. Circa un anno e mezzo fa, quando aveva sette anni, mi chiese se poteva iscriversi alla Scuola Teocratica della congregazione. Dentro di me giubilai. Alla sua età io non avrei fatto altro che pensare agli sport, a divenire un grande campione. E sapevo che Peyton avrebbe potuto supplicarmi di iscriverlo a una squadra di ragazzi o qualcosa del genere.
CIÒ CHE HA VERO VALORE
Penso che lo sport faccia bene, ma nel giusto contesto. Però delude sin dall’inizio. Gli atleti sono idolatrati come se fossero persone speciali, mentre sono soltanto persone di carne e ossa come tutte le altre. E i ragazzi sono spinti a eccellere negli sport: ma quello è commercio, non sport. E guardate quale danno viene fatto ai giovani i quali sono spinti a eccellere quando la maggioranza di loro non ne hanno proprio la possibilità.
Anche quando si eccelle, è un inganno. Perché? Perché non dura, non soddisfa realmente. I campioni sono presto sostituiti da altri, e in genere vengono dimenticati. Ne conseguono spesso delusione, depressione e problemi fisici. Cos’è allora che ha vero valore?
Anziché competere con altri per eccellere, ciò che reca vera soddisfazione è di aiutare e servire altri. Questo fece Cristo. Egli venne ‘per servire, non per essere servito’. (Matt. 20:28) Sì, la calorosa unità che questo spirito di altruismo e amore suscita in una famiglia e in una congregazione è ciò che rende la vita veramente degna d’essere vissuta: questo non avviene lottando per essere il migliore. — Da un collaboratore.
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“Vinsi un’altra medaglia d’oro”
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“I New York Giants mi offrirono un contratto”
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‘Cominciai a studiare la Bibbia insieme alla mia famiglia’