Dolci fatti con arte
ERO in Giappone solo da pochi giorni quando fui attratto da una strada fiancheggiata da negozi pittoreschi. Giunto a un negozio ben illuminato, notai una vetrina addobbata in modo squisito. Su un vassoietto c’erano il riccio spinoso di una castagna e un altro riccio accanto ad essa, spaccato a metà per mettere in mostra il frutto. Tutt’intorno c’erano foglie d’acero di colore rosso-bruno.
Proseguii, ma poi tornai sui miei passi per dare un’altra occhiata. Cos’erano? Ceramiche? Cartapesta? Non sapendo leggere l’insegna sopra la porta, entrai nel negozio per soddisfare la mia curiosità.
Dietro la facciata
Varcata la soglia del negozio trovai qualcosa per soddisfare non soltanto l’occhio, ma anche e specialmente il palato. Quelle cosine deliziose esposte in vetrina erano dolciumi, ma molto diversi da quelli che avevo visto o assaggiato fino a quel momento. Una ragione era che nella mente occidentale gli ingredienti usati qui non vengono associati con i dolciumi. Di che si tratta? Non ci credereste: pasta di riso e legumi lessati! Non sono gli unici ingredienti, ma sono quelli fondamentali e il loro uso risale a parecchi secoli fa.
Wagashi è il nome usato per indicare un’ampia varietà di generi di pasticceria tipicamente giapponesi. Dopo un pasto normalmente si mangia la frutta, mentre i dolci tradizionali si prendono insieme al tè e hanno diversi sapori. Colore, forma, consistenza e sapore variano a seconda del periodo dell’anno. In primavera potete aspettarvi di vedere vassoi di dolci a forma di pesca, prugna, camelia o giunchiglia. Ci sono poi quelli a forma di usignolo, spolverati di farina di soia verde.
Vogliamo entrare in un negozio diretto da due generazioni di pasticcieri? Forse ci permetteranno di dare una sbirciata nel locale dove fanno i dolci. Facciamo un inchino e un cortese sorriso al proprietario che ci fa da guida. Nell’angolo vediamo un grosso paiolo di rame sopra un fornello e dentro vi bolle il principale ingrediente di quelli che diventeranno dolci squisitamente modellati. Si tratta di legumi, naturalmente, e nel paiolo finiranno a turno fagioli lima, soia o piccoli fagioli rossi detti azuki. Tutti questi legumi sono quasi esenti da grassi e ricchi di vitamine, proteine e ferro. In questo negozio non si usano praticamente sostanze conservanti.
Su un tavolo vicino vediamo file di pallottoline fatte con farina di riso, ripiene di marmellata di legumi e cotte poi a bagnomaria. Servendosi di una tovaglietta da tè e di utensili di legno, il pasticciere, con movimenti rapidi e sicuri, modella la pasta dandole la forma di frutti e fiori. Quando comincia a decorarli, usa gelatina di alghe marine. Assomiglia agli altri tipi di gelatina con l’ulteriore vantaggio d’essere ricca di iodio. Quella che vediamo è di color verde per le foglie e ha sfumature pastello per i disegni floreali. Il kanten, come viene chiamata questa varietà di gelatina d’alghe marine (agar-agar), è mischiato anche a pasta di legumi per fare lo yocan, un pane in gelatina che piace a tutta la nazione. E anche agli stranieri! Freddo d’estate, offre un gradito ristoro e si può avere nei gusti di cachi, castagne, tè verde e altri.
Molto tempo prima che arrivasse dall’estero lo zucchero, nella pasticceria giapponese venivano usati come dolcificanti e come aromatizzanti la versione orientale del glucosio (ricavata dall’amido di riso e dall’orzo) o estratti di frutta. Il principio di usare ingredienti naturali è seguito ancor oggi. Sul prossimo tavolo vediamo mischiare erbe aromatiche e pasta di riso per fare il kusa-mochi, letteralmente torte d’erba. Spalanchiamo gli occhi davanti ai mochi (bigné di farina di riso) color rosa pallido e coperti di foglie: foglie di ciliegio in salamoia, del tutto commestibili. Ci sono anche foglie di quercia, bambù e camelia, ma il loro scopo è puramente decorativo.
Qualcosa da portare a casa
Nei tempi antichi, quando si viaggiava soprattutto a piedi, molti pasticcieri diffondevano la fama dei loro prodotti aprendo piccoli chioschi lungo le strade. Erano servite palline di pasta di riso e di tè infilzate in bastoncini, che poi venivano sgranocchiate lungo il cammino, un po’ come un ghiacciolo, o portate a casa ai parenti. Nella fredda e impervia prefettura di Aomori i viaggiatori preferivano i kori-mochi, usati in origine come viveri di scorta. Allora, come ora, quadretti di riso essiccato e addolcito venivano fissati insieme con fili di paglia a guisa di grappolo. Trecento anni più tardi i turisti lo chiedono ancora nella zona.
Se andiamo nella città di Tatebayashi, dove c’è un castello, troveremo un dolce di origine antichissima detto rakugan. È a base di orzo o granturco e, usando stampi di legno, si ottengono dolci a forma di fiori, foglie, bastoncini, pietre o di qualsiasi altra forma immaginabile. Viaggiando attraverso borghi e città del Giappone, riscontrerete che ognuno ha la sua specialità o meibutsu, e spesso ha a che fare con lo sviluppo e la storia della regione.
Un ultimo sguardo al posto di lavoro conferma che in questa pasticceria non esistono forni. Le parole d’ordine sono: lessare e impastare. All’elenco possiamo aggiungere un pizzico di fantasia e l’abile tocco dell’artista. Le figurine che abbiamo sotto gli occhi vengono chiamate dolci, ma abbiamo scoperto che sono cibi nutrienti.
Mentre i commessi avvolgono i nostri acquisti in belle scatole ricordo, il padrone del negozio ci invita a prendere il tè con la torta. I boccioli di rosa glassati e le torte d’erba mi piacciono. Voi cosa scegliete? Forse vi lascerete tentare dall’artistica forma di un dolce. O forse dal colore. Ma qualunque cosa scegliate, vi piacerà. — Da un collaboratore.